Domenico Rizzo: L'uomo? Una costruzione sociale e culturale

 

Domenico Rizzo: L'uomo? Una costruzione sociale e culturale

Domenico Rizzo

Membro del collegio dei docenti del Dottorato Internazionale in Storia delle Donne e delle Identità di Genere in età moderna e contemporanea che ha promosso la Summer School su Vecchie e nuove schiavitù

Per cominciare a conoscerci un po' ci parli di quello che è stato il suo percorso formativo.

“Io vengo da Scienze Politiche di Roma, mi sono laureato nel '93 in Storia Contemporanea e ho pensato per un po'a quello che volevo realmente fare: in effetti non ero assolutamente sicuro di voler lavorare all'università finché poi nel '97 non ho scoperto che esisteva questo dottorato, che allora si chiamava “Storia della famiglia e delle identità di genere”. Pensai quindi che accanto alla storia politica e istituzionale che avevo conosciuto all'università esisteva una storia sociale, delle persone, di uomini e donne, che poteva interessarmi ancora di più.”

Come comincia quindi il suo interesse per la storia delle configurazioni identitarie?

“Tutto nasce da un passaggio intermedio che c'è stato tra la laurea e il dottorato: sono stato catalogatore per il Ministero dei Beni Culturali dove mi sono occupato di fotografia antica, in particolare dell'800; tra le foto catalogate una parte consistente era costituita da album di famiglia, album dell'800 che il Ministero aveva acquistato da un collezionista privato e su cui scrissi un breve saggio in quanto cominciai a interessarmi all'autorappresentazione delle famiglie davanti al fotografo, alla composizione degli album, all'ordine in cui le foto erano sistemate. Tutti questi elementi proponevano infatti un affresco della famiglia, dei diversi ruoli che si delineavano anche in base al genere, che mi predispose allo studio della famiglia come istituzione all'interno di questo dottorato.
L'esperienza del dottorato è cominciata nel '97, dopo un concorso che vinsi immediatamente e senza conoscere nessuno, contro anche i consigli degli amici e dei docenti che mi conoscevano: tutti erano molto scettici al riguardo in quanto si trattava di un dottorato, che si trovava a Napoli, per giunta di femministe. Il tempo però mi ha dato ragione e dopo essere rimasto a contratto per un paio di anni, prima ho vinto il concorso da ricercatore, nel 2004, e dopo qualche anno sono entrato nel collegio docenti del dottorato. Posso dire quindi che nell'arco di questi tredici anni sono cresciuto un po' in questo dottorato e con questo dottorato e questo ha costituito per me un'esperienza molto importante, oltre che dal punto di vista scientifico e accademico, anche dal punto di vista personale e affettivo.”

Ma che tipo di rapporto crede di avere oggi con i suoi studenti?

“Io credo buono anche se è un po' difficile da dire...bisognerebbe, forse, chiedere a loro! In tutti i casi penso di essere un po' duro, severo: sono molto esigente e cerco sempre di evitare l'approssimazione e la superficialità; proprio per questo mi piace insegnare loro che l'unico modo per fare le cose è farle bene, seriamente, e che bisogna aprirsi al mondo uscendo dalla propria città, viaggiando, leggendo i giornali...insomma quello che consiglio è di sprovincializzarsi il più possibile.”

Per quanto riguarda invece la Summer School, come nasce l'idea di queste settimane d'approfondimento?

“È dal mio secondo anno di dottorato che è cominciata l'esperienza delle settimane intensive: abbiamo cominciato, infatti, dodici anni fa e oggi è diventato quasi un appuntamento fisso annuale che costituisce un modo per ritrovarsi più giorni, tutti insieme, a lavorare su un tema. Abbiamo sempre pensato che fosse una cosa molto formativa per gli studenti e che come forma didattica fosse molto efficace. Il dottorato è diventato poi internazionale: si sono uniti a noi partner spagnoli, francesi, austriaci e, dopo una settimana a Madrid, a Parigi e a Vienna quest'anno toccava a noi, di nuovo dopo quei primi anni in cui la Summer School era solo napoletana.”

Alla luce degli interventi che ci sono stati, cosa intendiamo per “Vecchie e nuove schiavitù”?

“Mi sembra che il quadro che ci hanno dato le relazioni finora segna almeno una differenza fondamentale e cioè che fino a un certo punto, ovvero fino all'abolizione delle vecchie schiavitù, la schiavitù è stata anche uno status giuridico in quanto era legalmente sancito il possesso completo di una persona. Le nuove schiavitù hanno al contrario un carattere informale, di fatto, che a volte è mascherato e a volte no, ma che in ogni caso non è supportato da uno statuto legale che lo legittima; le nuove schiavitù sono infatti sempre illegali, se non altro rispetto alla normativa internazionale e a ciò che l'ONU ha affermato già dal '48 e che ha le proprie radici, in termini di diritti umani, proprio nel dibattito sull'abolizione della schiavitù. Possiamo individuare quindi una continuità tra quell'abolizione e ciò che è stato deciso dall'ONU ma, malgrado ciò, oggi ci ritroviamo di fronte ad un fenomeno che non è stato debellato ma che anzi mostra la sua capacità di rigenerarsi e di ripresentarsi sotto nuovi aspetti sulla base di un nucleo fondamentale: il potere totale che alcuni soggetti possono esercitare su altri.”

Ci parli ora delle asimmetrie sociali che esistono oggi, secondo lei, tra uomo e donna.

“Queste asimmetrie si riscontrano in tutti i campi della vita sociale, istituzionale e culturale con livelli diversi ma il cambiamento delle asimmetrie non avviene simultaneamente in tutti i campi.
Se pensiamo ad esempio alla parificazione completa del diritto privato, questa è arrivata nel '75 con la riforma del diritto di famiglia, mentre il diritto di voto era arrivato quasi trent'anni prima, nel '46: la parificazione attraverso il suffragio universale non ha comportato automaticamente una parità di accesso delle donne alla sfera politica e decisionale, che tra l'altro continua ad essere un campo in cui l'asimmetria è tuttora evidente, così come la riforma del diritto di famiglia non ha evidentemente cancellato le asimmetrie di fatto, relative ai ruoli di genere, che appartengono alla cultura. A queste possiamo associare altri meccanismi che incoraggiano ad esempio le donne a non lavorare e a occuparsi della casa, sopperendo magari a un welfare che non è sufficiente e che non fornisce servizi adeguati per la maternità, in termini di asili nido, o anche di assistenza agli anziani.
Il nostro infatti è un welfare che è ancora costruito attorno a una famiglia monoreddito in cui le donne svolgono una funzione di riproduzione e di cura; questo è evidentemente un fattore che si ripercuote anche sull'accesso al mercato del lavoro, tradizionalmente strutturato intorno al maschio capofamiglia che guadagna per tutta la famiglia: non a caso la parola d'ordine dei sindacati era il “salario familiare” espressione che riproduce proprio il modello appena presentato.”

Come si inserisce il tema dell'omosessualità nello studio dei rapporti tra identità?

“Si tratta di un tema i cui studi, in Italia, sono ancora poco frequentati...la cosa certa è che questo complica molto il discorso dell'analisi delle identità di genere in quanto rompe gli schemi finora esistiti. Noi veniamo infatti da un piano culturale in cui le scelte sessuali e le identità di genere hanno coinciso e cioè da una saldatura di questo tipo: un uomo biologico ha certi tratti caratteriali e comportamentali tra cui quello di amare le donne. In una proposizione come questa si saldano tre aspetti: la biologia, il genere, che il comportamento e la rappresentazione sociale della maschilità legano al corpo, e la scelta sessuale. Il genere smonta il primo tassello, quello biologico, in quanto ci dice che quello che noi pensiamo debba essere un uomo è in realtà una costruzione culturale e sociale, così come pensiamo che una donna non sia incline alla maternità per il fatto stesso di avere un utero, ma sempre e comunque a causa di una costruzione culturale e sociale. Fino a questo punto, smontando semplicemente il rapporto tra corpo e identità di genere, ci troviamo ancora in un'implicita eterosessualità obbligatoria per cui nella performance di genere maschile chi non è eterosessuale viola una norma di genere, in quanto non si comporta da uomo.
Separare questi due aspetti significa allora mettere in discussione questo piano dicendo che la performance e la maschilità prescindono dal genere: essere omosessuali o eterosessuali non significa infatti essere più o meno uomini.
Rispetto alla scelta sessuale gli omosessuali tra loro hanno una gamma infinita di sfumature e questo tende a complicare il quadro: ci sono ricerche molto affascinanti, soprattutto per i casi di transessuali, che dimostrano tutto questo ed in particolare vorrei parlare di un caso, a mio avviso eloquente, di una donna che ha compiuto il percorso di transizione per diventare uomo, un FtM, che una volta uomo si è poi definito omosessuale e si è creato quindi dei rapporti affettivi con altri uomini. Si tratta quindi di un soggetto che non voleva essere una donna eterosessuale ma bensì un uomo omosessuale.
Tutti gli assunti scontati sono perciò rimessi in discussione in quanto la scelta sessuale deve essere presa come un tassello in più che moltiplica le variabili.”

Francesca De Rosa - Direttore: Alberto Manco

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