Dove schiavitù sta
Dove schiavitù sta
Mediterranea e atlantica, legale e di fatto: quante sono le forme di schiavitù?
Andreina De Clementi, coordinatrice del Dottorato internazionale in Storia delle donne e delle identità di genere in età moderna e contemporanea, ha inaugurato la XI Settimana internazionale di Alta Formazione con un preambolo su quella che è la situazione odierna in campo universitario: si tratta di una situazione che la De Clementi ha definito perigliosa e che, inevitabilmente, abbraccia le sorti dello stesso dottorato da lei diretto. “Questo dottorato – spiega – ha ottenuto i giusti riconoscimenti con difficoltà e proprio per questo va protetto ancora in quanto costituisce un investimento sul futuro”.
Vecchie e nuove schiavitù è l’argomento analizzato dalle studiose presenti e la prima a prendere la parola è Marina D’Amelia, docente all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. La D’Amelia comincia col presentare l’enorme divario esistente tra la conoscenza che l’opinione pubblica ha rispetto alla tematica della schiavitù e quelli che sono gli studi effettuati in quest’ambito: molteplici infatti sono le forme di schiavitù che si differenziano sia diatopicamente sia diacronicamente. La schiavitù mediterranea, per esempio, presenta rispetto a quella atlantica le caratteristiche di reciprocità, temporaneità e ripetitività mentre un dato ancor più interessante emerge dal confronto tra schiavitù del passato e quelle contemporanee: oggi si può dire che la schiavitù non solo è ancora presente pur non essendo più legale come in passato, ma riguarda i propri “compaesani” e non più “l’altro, il diverso”.
La parola è passata poi a Pilar Pérez Cantó, docente all’Università Autonoma di Madrid che introduce la sua dissertazione, intitolata Mujeres sin historia: Esclavas en los territorios de la Monarquía hispánica (1500-1800), con delle considerazioni di ordine pratico relative alle difficoltà che si hanno in genere nel reperire le fonti attinenti alla storia delle donne. La Pérez Cantó ci ha parlato poi più in generale della schiavitù relativa ai territori della monarchia spagnola: questa ha riguardato soprattutto turchi, berberi e neri, i primi due per motivi legati alla fede, gli ultimi invece perché si pensava sopportassero meglio la condizione di schiavi e le fatiche ad essa legate. Va da sé il riferimento al contesto americano in cui gli schiavi sono stati impiegati nel duro lavoro delle miniere e delle piantagioni.
La giornata del 21 settembre si è aperta invece con un intervento dal titolo Black Slaves in Renaissance Europe presentato da Kate Lowe, docente alla Queen Mary College University of London. La Lowe ha analizzato come il trasporto coatto di schiavi neri dall’Africa all’Europa abbia dato inizio ad una nuova percezione dell’altro: tra gli esempi riportati alcuni dipinti dell’epoca, di scene di strada, dove si può notare una notevole presenza di schiave nere inserite nel contesto cittadino; tale presenza risulta essere di gran lunga superiore rispetto a quella delle loro padrone che, in virtù della loro “rispettabilità”, godevano sicuramente di minore libertà in questo senso.
Esclavas del Republicanismo è invece il tema che ha esaminato Carmen La Guardia, docente all’Università Autonoma di Madrid: è stata presentata, come esempio di quelli che erano i rapporti tra un padrone repubblicano e uno schiavo, la storia di Abbe che fu schiava di Sarah Livingston, la moglie del politico e rivoluzionario statunitense John Jay. Obiettivo dell’argomentazione è stato quello di mostrare le differenti percezioni della schiavitù, in questo caso vista non come problema di disuguaglianza ma piuttosto come eventuale corruzione degli obiettivi repubblicani.
Francesca De Rosa