Giovanni Dotoli: la vita è un viaggio dentro la parola
Giovanni Dotoli: la vita è un viaggio dentro la parola
In vista del conferimento della Laurea Honoris Causa in Teoria e Prassi della Traduzione all’Orientale di Napoli, il Web Magazine d’Ateneo ha intervistato Giovanni Dotoli
Professore Dotoli, quale è la motivazione con cui le viene conferita la Laurea Honoris Causa in “Teoria e prassi della traduzione” dall'Orientale di Napoli?
“Immagino che sia per il ruolo che io svolgo da più di quarant’anni nell'àmbito della francesistica italiana e internazionale.”
Che rapporti ha con questa Università?
“I rapporti vengono da molto molto lontano. Addirittura quando ho deciso di iscrivermi all'Università sono stato in dubbio se iscrivermi a Napoli o a Bari: sono nato sul Subappennino Dauno, quindi a mezza strada tra Napoli e Bari, e alla fine ho scelto Bari dove si è svolta tutta la mia carriera. Ad ogni modo i miei rapporti con l'Orientale sono da sempre molto fecondi. Ho collaborato con importanti personalità di questo Ateneo e posso dire di più: la delibera con la quale è nata la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'Orientale l'ho scritta io. All'epoca ero componente del CUN (Consiglio Universitario Nazionale) e quindi misi in moto tutta una serie di meccanismi per far nascere una ventina di facoltà di lingue in Italia, che allora erano solo sei.”
Come nasce il suo interesse per la lingua e la letteratura francese?
“Anche questa è una cosa che viene da molto lontano. Da bambino ho imparato l'italiano come una lingua straniera perché al Sud la maggior parte di noi, salvo i figli dei nobili, venivamo dalla povertà. Alla scuola media e ancor più alla scuola superiore mi è nato un interesse immenso per la poesia francese, per questa lingua dolce, sonora, che come si sa ha l'accento sempre alla fine di ogni parola. Un accento sonoro che mi ha colpito fino al punto da farmi scegliere questa lingua come traccia e traguardo della mia vita.”
C'è un autore a cui è particolarmente legato?
“Ce ne sono diversi. A parte quelli che ho studiato, che sono tanti, perché ho studiato la letteratura francese dal Medioevo ai giorni nostri, se dovessi veramente scegliere gli autori a cui sono legato, quelli veramente simbolici direi che sono tre: Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud e Guillaume Apollinaire. Scelgo tre poeti, uno della prima metà dell'Ottocento, uno della seconda metà dell'Ottocento e il terzo della prima metà del Novecento: siamo su un arco di appena sessanta anni in cui ritengo che nasca quella che chiamiamo la modernità: la letteratura cessa di essere oggetto e diventa soggetto. Al centro c’è l'essere umano stesso, in questo caso il poeta. I tre che ho appena citato, in particolare, parlano di loro stessi, non degli altri; non narrano la vita attraverso l'esterno, ma la narrano attraverso la propria grande esperienza, talvolta anche tragica come quella appunto di Baudelaire.”
E quanto alla sua di poesia, come la definirebbe?
“La definisco in poche battute come un viaggio nell'infinito all'epoca della responsabilità.”
A quale àmbito della sua ricerca è particolarmente legato e perché?
“Tra le tante ricerche che ho compiuto, quella che veramente mi ha più esaltato è la ricerca sull'opera di Rimbaud. Rimbaud ha scritto molto giovane, tra i 14 anni e i 17: ha un po' viaggiato, è stato in Africa per diverse ragioni, poi non ha scritto più nulla, se non lettere alla famiglia. Questa voce dunque giunge come un lampo che all'improvviso illumina tutto e tutto stravolge. Dopo questo lampo, che dura pochissimo, nulla è più come prima e poi il silenzio: Rimbaud non è esistito più fino al punto che all'inizio del Novecento, era già morto ormai da dieci anni, lo consideravano un geografo. In realtà si è occupato un po' di geografia dell'Africa, dell'Etiopia, dell'Abissinia, ma in maniera marginale e quindi questo lampo improvviso ha totalmente stravolto la letteratura non solo la letteratura francese ma anche quella universale, perché dopo Rimbaud nulla sarà più come prima.
Ho studiato due aspetti in particolare di Rimbaud: il primo è quello relativo ai suoi legami con l'Italia che erano molto oscuri. Si sapeva molto poco. Ho scoperto che in Africa i suoi più grandi amici sono stati gli italiani, quelli che il governo italiano aveva mandato lì all'epoca, negli anni 1888/91 circa, per sondare la possibilità di crearci delle colonie, ad esempio la Somalia. Contestualmente questa italianità di Rimbaud e il fatto che gli italiani siano stati i primi - senza sapere che fosse Rimbaud perché lui non rivelava il suo passato di poeta - a riconoscere il genio dietro il silenzio. Il secondo aspetto che mi ha colpito, e che nessuno aveva mai studiato prima, è come lui si definisse uomo di scienza senza esserlo. Nelle lettere che scrive dall'Africa alla madre e ai familiari ogni tanto chiede una macchina fotografica, uno strumento per misurare il terreno, un dizionario delle ferrovie - tutte cose fuori del comune - chiede poi come si fanno le tegole, come si costruiscono le candele… e allora mi sono chiesto come mai questo interesse straordinario per la scienza dell'epoca. Poi ho scoperto che il suo sogno grande era diventare ingegnere ma soprattutto mi sono reso conto di come abbia potuto vedere in maniera molto anticipata, trenta o quarant'anni prima, il ruolo della scienza nella modernità. Si tratta di un qualcosa di straordinario in quanto egli riesce, così, a unire poesia e scienza. Oggi si dice che la poesia non ha più il ruolo di un tempo perché viviamo l'epoca della comunicazione, della scienza, ma Rimbaud più di cento anni fa e giovanissimo, in un epoca in cui la scienza cominciava ad affacciarsi e si viaggiava verso la velocità che si avrà all'inizio del Novecento, ha mostrato questa capacità di unire il silenzio di cui parlavo prima, il lampo che illumina il mondo intero con la sua parola e nello stesso tempo la velocità della scienza facendoci capire che tra scienza e poesia c'è una solidarietà, un'unione essenziale. La Chiesa ad esempio ha sempre condannato la scienza ma anche la Chiesa oggi è quasi costretta a dire che scienza, cultura, poesia e religione viaggiano sulla stessa via. Questo è tutto in quel lampo di Rimbaud. La scienza non è soltanto la descrizione del possibile, dell'umano, ma è anche fede, fiducia assoluta nella grande capacità dell'uomo.
Si pensi che Rimbaud aveva capito che la scienza ci dice il come delle cose, ad esempio come sono fatte, e che la poesia ci dice il perché: perché e come devono sempre viaggiare insieme, altrimenti l'uomo è un disperato.”
Tra i suoi progetti c'è la creazione di un dizionario bilingue italiano-francese francese-italiano: quali sono le difficoltà e quali gli elementi che reputa necessari per un lavoro del genere?
“Il progetto è molto avanti. Siamo al 60 % del progetto. Abbiamo finito la parte francese-italiano e stiamo componendo la parte italiano-francese. Per questo progetto ho formato una quarantina di giovani, dottorandi, dottori di ricerca, ricercatori, e mi piace dire che molti sono di Napoli: possiamo parlare di un vero e proprio asse di grande solidarietà con l'Orientale, che viene anche qui da molto lontano. Per quanto riguarda le difficoltà, tutti mi chiedono il perché di un altro dizionario, sostenendo che oggi non serve più, in quanto esistono quelli in linea: per me non è vero. Io definisco il dizionario la cattedrale della definizione. Noi per comunicare utilizziamo principalmente la parola: il dizionario è il luogo del dire, delle dizioni, della parola non solo scritta ma anche orale nel suo contesto definitorio plurimo. Cercando una parola nel dizionario, soprattutto nel monolingue, troviamo una sorta di albero del senso. Il dizionario bilingue è qualcosa che va ancora più al di là. Tradizionalmente è stato considerato come una registrazione traduttiva: ma il dizionario bilingue non è solo questo, è lo strumento veramente necessario, in questa epoca, di comunicazione. Comunicazione significa per l'appunto tradurre il senso, il significato del pensiero. Quindi il dizionario che per natura è traduzione di fatti è l'organo numero uno della comunicazione e del senso.
La difficoltà maggiore del mio progetto è stata non solo applicare quello che ho appena detto, ma anche trovare nuovi stimoli e nuove vie, in quanto il vecchio dizionario bilingue non rispondeva più alle esigenze e quindi ne ho fatto anche uno strumento culturale. Non posso svelare tutti i segreti di questo progetto, ma è il primo dizionario bilingue al mondo che sarà anche un dizionario culturale, che va al di là della parola verso la parola nella traduzione: tutto è inserito in un contesto. È il primo dizionario bilingue che per esempio inserirà le citazioni letterarie, perché l'utente, che sarà il lettore che lo consulterà, ha bisogno da un lato di avere uno strumento largo e dall'altro uno strumento del sogno, di poesia. Io sostengo che il dizionario è un poema. Una parola qualsiasi nella sua chiarezza espositiva di fatto è un poema, un viaggio dentro la parola. Qualsiasi parola, non solo quelle come sole, luna, stella, cielo, mare, ma qualsiasi parola, costituisce un atto poetico, anche le parole più semplici, quelle che Pascal definiva parole indefinibili, come ad esempio Dio: qui ci troviamo di fronte all'enigma del senso come se si avesse a che fare con una parola futurista che da un lato è lanciata verso il futuro e dall'altro scardina il passato.
Quanto agli elementi necessari io ho sempre detto e scritto - stanno uscendo in questi giorni a Parigi due miei libri “Dizionario della lingua francese: teoria, pratica, utopia” e “La messa in ordine della lingua nel dizionario” - che il dizionario è un'opera letteraria, come un romanzo, un saggio, una raccolta poetica, e va considerato come tale così come l'autore del dizionario va considerato come un autore come Manzoni, Rimbaud, come un direttore d'orchestra che deve dirigere moltissimi orchestrali. Io quindi mi considero un direttore d'orchestra che ha formato alla partitura della parola più di trenta giovani, tutti tra i 25 e i 30 anni, e la maggior parte di questi giovani sono diventati ricercatori. Il progetto quindi è produttivo anche per collocare questi giovani all'interno dell'Università nazionale e internazionale.”
Che importanza hanno oggi, a suo avviso, gli studi linguistici?
“Gli studi linguistici hanno un'importanza straordinaria. Ce l’hanno peraltro all'interno delle scienze umane che - ahimé - vengono sempre più messe da parte da tutti i governi in Italia e all'estero, perché si pensa che le scienze umane non producano. Io osservo però che coloro che lo dicono lo possono dire perché si sono formati con le scienze umane a cominciare dall'andare a scuola: tutti noi abbiamo cominciato con le scienze umane quando la maestra ci ha messo la penna in mano e ci ha insegnato a scrivere. Le scienze umane sono quindi la base assoluta di qualsiasi percorso formativo e il Paese che abbandona le scienze umane alla deriva, senza un centesimo, senza speranza, è un Paese che non ha un futuro, o può avere una crescita solo sul momento ma poi dopo è abbandonato da Dio e dagli uomini. In questo contesto le scienze umane e ancor più le scienze linguistiche hanno un ruolo centrale perché consentono la comunicazione, l'atto del dire, dello scrivere, dell'essere al mondo. Vorrei portare l'esempio della Torre di Babele: si tratta di un mito che si trova nella Bibbia e come tutti i miti si forma nella storia piano piano, e che narra di una torre che gli uomini volevano costruire per sfidare il cielo e arrivare fino a Dio. Ma le persone non si capivano più fra loro in questo mito che parla di un disordine linguistico: la torre è crollata e sono nate tante lingue. Questo è il mito e noi lo interpretiamo: questo mito ci dice che quando le lingue non svolgono il ruolo di comunicazione e di dialogo tra gli uomini, tra i Paesi, tra i mondi, allora la torre simbolicamente crolla. La torre siamo tutti noi e così il sistema non si tiene più, a maggior ragione quando questi studi linguistici sono l'asse portante di una formazione del dialogo, della pace, di un nuovo senso della civiltà. Lo stesso Aristotele, un tuttofare come Leonardo da Vinci, ha dedicato la sua attenzione all’argomento scrivendo la Poetica, in cui descrive l'arte della retorica, la scienza dell'atto linguistico, il sistema che studia l'organizzazione delle parole affinché questa faccia giungere meglio il messaggio all'altro.”
Come giudica nel suo assetto complessivo l'Università italiana?
“Nel complesso la giudico positiva di per sé. Mentre il governo fa poco affinché l'Università italiana migliori e mentre le leggi sono di fatto più punitive che costruttive, temendo che siamo tutti dei fannulloni, degli imbroglioni, dei nepotisti. Di fronte a tutto questo l'Università italiana dovrebbe essere già crollata, e invece no. Miracolo! Si tiene su! Perché ha delle basi storiche solide, nella tradizione: l'Università è nata in Italia ed è stata l'Italia ad esportarla. Tutti i modelli sono modelli di Università italiana e quindi noi siamo forti di questa lontana, grande tradizione che ci permette quasi di avere un'autosufficienza. È un miracolo che l'Italia abbia prodotto grandi geni nel campo della scienza e degli studi linguistici in un’epoca in cui non esistevano sistemi di finanziamento della ricerca e questo è accaduto proprio perché abbiamo dentro di noi il senso di appartenenza a una comunità universitaria in cui ogni soggetto, singolarmente o in collegamento con gli altri, crea il nuovo, non si accontenta di quello che c'è e quindi costruisce giorno dopo giorno. Un amico francese una volta mi ha detto: ‘voi siete il popolo dei geni: solo un italiano poteva inventare la Cinquecento!’. Lui in effetti riconosceva in questa genialità e fantasia italiana la capacità di fare una macchina dal nulla, una piccola scatolina che poteva trasportare quattro persone così come faceva una Mercedes! Questa è la nostra forza e se noi unissimo questa forza intrinseca a una progettualità aiutata dai governi faremmo molti, molti passi in avanti più degli altri. In Italia poi c'è il maggior numero di monumenti perché noi non amiamo fermarci. Questo accade perché siamo un po' come la Gioconda di Leonardo: guardiamo dappertutto ma non si sa mai dove guardiamo.”
Cosa consiglierebbe a uno studente che si avvicini agli studi linguistici?
“Io consiglierei prima di tutto di studiare subito i libri fondanti, non solo quelli attuali ma anche ad esempio la Poetica di Aristotele. Fatto questo non si deve mai scoraggiare e deve operare sempre nella convinzione che si arriverà da qualche parte, anche al di fuori dell'Università perché - sebbene io non sia d’accordo con tutte le dichiarazioni sul posto fisso che hanno fatto alcuni ministri - è pur vero che dobbiamo tornare a quello che eravamo: quando a Napoli si parla di ‘arte di arrangiarsi’ questo viene inteso come qualcosa di poco nobile, ma non è così. Arrangiarsi vuol dire mettersi in riga e fare il proprio dovere fino al momento in cui si accorgeranno di te. La mia vita ne è un esempio: io vengo dal nulla, i miei genitori erano nella povertà assoluta però ho sempre creduto nella forza del lavoro, dell'impegno, nella progettualità intesa come generosità. Ai giovani direi: progettate! Inventate l'impossibile! Ma con generosità, andando avanti da soli e in concerto, avendo sempre il senso di squadra. Un direttore d'orchestra va avanti con la squadra, un po' come il mio dizionario.”
Che cos'è per lei la traduzione?
“La traduzione è l'arte del dialogo. L'arte linguistica che consente di essere in linea con tutti, anche con coloro che la pensano all'opposto di me: cito la frase di Voltaire che diceva ‘non sono d'accordo con te ma mi batterò a sangue perché tu possa esprimere il tuo pensiero, contrario al mio’. Questo è quello che fa la traduzione.”
Giovanni Dotoli come descriverebbe Giovanni Dotoli in tre parole?
“Giovanni Dotoli è un po' come un ritratto che François Chapuis, un mio amico, mi ha fatto anni fa: questo ritratto, a matita, molto molto leggero, mi dipinge con un lato del mio viso illuminato al massimo, una luce infinita, e l'altro lato del mio viso nell'ombra. Io sono esattamente questo, mi autodefinisco ombra e luce. La luce è tutto ciò che faccio, applico, senza mai fermarmi e dando tutto me stesso a me stesso e agli altri, prima di tutto agli altri, dato che ho formato tanti allievi nella mia vita. Nello stesso tempo c'è l'ombra, cioè la parte che è dentro di me, la mia coscienza, il mio io, il mio animo, il mio cuore che sono il motore segreto che non si vede ma che è sempre presente e in cui ho assoluta fiducia. Talvolta forse pecco di immodestia ma io credo fermamente in quello che faccio.
Recentemente mi è venuta l’idea di fare una raccolta di poesie sulla notte che non esiste né in italiano né in francese e nel giro di pochi giorni questa raccolta poetica era pronta, in francese. Si intitolerà La nuit, le passage, e uscirà a Parigi presso le Éditions du Cygne.”
Francesca De Rosa - Direttore: Alberto Manco
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