Giovanni Gozzini: il centro di gravità del sistema delle comunicazioni si è spostato

 

Giovanni Gozzini: il centro di gravità del sistema delle comunicazioni si è spostato

Giovanni Gozzini

“In molte tribù africane le parole «sviluppo, crescita» non si possono tradurre”

Le Giornate di studio che si terranno dal 24 al 26 marzo a Procida sono dedicate a “Comunicazione e Ambiente”. Su che cosa verte il suo intervento?

“Il mio intervento verterà su povertà – a livello globale – e migrazioni: partirò con una grande foto della Terra di notte, un’immagine satellitare dove naturalmente l’illuminazione artificiale mostrerà la sua corrispondenza con l’urbanizzazione e lo sviluppo economico; chiaramente l’Africa sarà il continente meno illuminato ma non per questo il meno urbanizzato. Una delle caratteristiche che fanno da ostacolo alla crescita di questo continente è lo sviluppo di grandi megalopoli come Città del Capo, Johannesburg, Lagos e così via che però corrispondono a un’urbanizzazione di contadini che non trovano opportunità di lavoro nelle grandi città. Prende piede così il fenomeno delle bidonville, che nasce non a caso nel Senegal francese degli anni Venti, e soprattutto quello relativo ad un’economia sommersa, fatta di piccoli lavori urbani, che non riesce a garantire crescita e sviluppo per tutti questi grandi agglomerati.”

A proposito di “Povertà e migrazioni”: qual è il primo nesso da porre in evidenza rispetto alla relazione tra povertà e migrazioni da una parte e comunicazione dall'altra? Quali sono state le evoluzioni rispetto al passato?

“Rispetto al passato un grande fenomeno nuovo è la femminilizzazione: più o meno il 50% dei migranti sono donne e questa è una novità; anche soltanto un secolo fa i nostri nonni o bisnonni emigravano dal Veneto o dalla Sicilia e in alcuni casi richiamavano a sé, quando la migrazione diventava definitiva, i pezzi di famiglia rimasti in patria. Oggi anche le donne emigrano, in alcune situazioni per una questione di emancipazione femminile, è il caso delle Filippine, del Perù, e sono realtà che possiamo constatare anche da noi nella nostra realtà quotidiana; in altre, se pensiamo alle nigeriane o alle donne dell’Est Europa, si tratta di donne che sono spesso legate alla criminalità organizzata, alla prostituzione: si parla, a questo proposito, di riduzione in semischiavitù di esseri umani. Abbiamo quindi una realtà molto ambivalente e contraddittoria: da una parte emancipazione e dall’altra quasi schiavitù delle donne.”

In relazione al suo ultimo volume Un’idea di giustizia, edito da Bollati Boringhieri nel 2010, come spiega la divisione del mondo in paesi ricchi e paesi poveri e qual è, per l’appunto, la sua idea di giustizia?

“Innanzitutto non possiamo più usare il termine Terzo Mondo. Oggi le realtà sono molto diversificate: in Asia ci sono stati Paesi che hanno varcato la soglia del sottosviluppo, prima le cosiddette «tigri asiatiche», Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud e Singapore, poi le «anatre in volo» e cioè i Paesi più piccoli del Sud-Est asiatico, Malaysia, Thailandia, Vietnam; tutti Paesi che si muovono verso i due grandi colossi, la Cina e l’India. In Cina negli ultimi trent’anni quattrocento milioni di persone sono emerse da quella che la Banca Mondiale considera la soglia della povertà assoluta: si trattava infatti di persone che vivevano con meno di un dollaro al giorno. Per questi Paesi è iniziato un processo di crescita accelerata che è collegato a quella che noi chiamiamo delocalizzazione e cioè lo spostamento delle proprie industrie in regioni o stati diversi: restano esclusi da questo processo di globalizzazione molti Paesi dell’Africa anche e soprattutto per una situazione di grande instabilità politica. In Africa oggi ci sono ventinove conflitti, perlopiù guerre civili, dimenticate, di cui i media non si occupano: questa instabilità di fatto comporta la chiusura agli investimenti esteri, l’impossibilità o l’enorme difficoltà a intraprendere una strada di investimento industriale, di crescita dell’agricoltura, anche perché vengono meno le condizioni minime di sopravvivenza delle popolazioni.”

Come considera il rapporto tra la quantità e la qualità delle informazioni che circolano su comunicazione e ambiente?

“Già dal 1980, ormai parliamo di trenta anni fa, l’Unesco commissionò un rapporto a una Commissione Internazionale di cui facevano parte grandi personalità del mondo giornalistico, Hubert Beuve-Méry, il fondatore di Le Monde, Gabriel García Márquez, grande romanziere ecc.: il presidente di questa Commissione era Seán MacBride, avvocato irlandese che è stato il fondatore di Amnesty International, e tra i risultati del Rapporto MacBride, molto noto negli ambienti del giornalismo internazionale, si diceva «il Nord produce informazione, il Sud la subisce». Il Sud quindi scompare, non fa notizia, e anzi subisce e consuma le notizie prodotte dal Nord del mondo. Non è che dal 1980 ad oggi la situazione sia cambiata sostanzialmente: un esempio su tutti è la televisione Al Jazeera che con le due guerre del Golfo è diventata una fonte importante. Si tratta quindi di un panorama che sta cambiando, in molte città africane c’è una stampa quotidiana che sta crescendo sia per numero di testate che per numero di copie in circolazione, però di fatto quello che possiamo constatare ogni giorno, leggendo il giornale e guardando la televisione, non è cambiato: il Sud fa notizia soltanto quando c’è la cattiva notizia, quando c’è una delle poche guerre che riescono a bucare i media, quando c’è una catastrofe; il buono, i fenomeni di buona amministrazione, di crescita, di fatto non compaiono e quindi continuiamo sempre a dare un’immagine dell’Africa come di un continente alla deriva: c’è del vero in questa immagine però c’è anche molto di buono, di positivo che non fa notizia, non viene raccontato e quindi non conosciamo.”

Esiste una seria identificabilità della comunicazione ambientale di destra o di sinistra?

“Direi di no: adesso forse la tematica ambientalistica si sta diffondendo con la raccolta differenziata, l’attenzione all’ambiente… mi sembra insomma che almeno a livello teorico questa coscienza ci sia e non sia legata a uno schieramento, ad una visione politica in particolare; di fatto lo vediamo anche in questi giorni con l’emergenza nucleare, stiamo molto indietro nei comportamenti pratici Le energie alternative coprono il 5% del nostro fabbisogno energetico e se si pensa che il primo grande allarme nucleare c’è stato nell’86 con Chernobyl si capisce che non si è fatto tanto. L’Italia da questo punto di vista sta peggio di altri perché per esempio in Germania le energie alternative coprono il 20% del fabbisogno: c’è anche da questo punto di vista una particolare incapacità, la definirei così, dei movimenti ecologisti, a convincere davvero l’opinione pubblica ma soprattutto a passare dal dire al fare… lo sappiamo che «c’è di mezzo il mare», ma in Italia questo mare lo abbiamo attraversato molto meno di quanto lo hanno fatto altri Paesi nelle nostre stesse condizioni.”

Cosa pensa delle cosiddette energie alternative?

“Io penso che dovrebbero entrare nel comportamento quotidiano di ciascuno: ciascuna famiglia dovrebbe essere incentivata all’acquisto di pannelli fotovoltaici, ad esempio; ma l’Italia è anche il Paese delle mille note burocratiche e l’accesso a questo tipo di risorsa dovrebbe essere molto più facile, ripeto, obbligatorio per ogni nucleo familiare. È possibile ma ci vorrebbe un piano energetico a livello nazionale: se in Germania ci sono riusciti non si capisce perché in Italia non possiamo farlo; saremo più anarchici, più spreconi, più abituati al sole…”

Nucleare: sì o no?

“Io cito sempre Guerre Stellari a questo proposito «solo un Sith vive di assoluti»: direi che sono diffidente sempre, per principio, dal punto di vista scientifico, alle posizioni manichee, o bianco o nero appunto, o sì o no. Se si guarda la storia degli incidenti nucleari del nostro passato ne abbiamo tre, compreso quello odierno del Giappone, cioè Chernobyl e Three Miles Island; se si considera il numero delle centrali nucleari nel mondo e i trent’anni circa di attività che hanno alla spalle, ci rendiamo conto che le nostre automobili, i nostri aerei, le nostre dighe, le nostre petroliere hanno fatto disastri molto più grandi. Chiaramente questo non vuol dire andare ad occhi chiusi verso l’avvenire ma certamente vuol dire non rinunciare, anzi incentivare tutti gli sforzi per costruire energia nucleare sicura. La sicurezza al 100%, si sa, non esiste: una delle chimere della nostra epoca è quella di poter securizzare tutto e poter ottenere un’esistenza senza pericoli, forse per dimenticare che la morte esiste; è un po’ uno dei sogni della nostra realtà contemporanea però questo non vuol dire appunto rinunciare a tutti gli sforzi che si possono fare. Quindi, per rispondere alla domanda, direi nucleare sì, incentivando al massimo grado possibile gli sforzi per costruire centrali in grado di resistere a qualsiasi tipo di calamità naturale.”

Esauribilità delle risorse, nuove forme di gestione delle risorse: a che punto si è? Fa un esempio di comunicazione efficace su questo tema da parte di uno specifico canale massmediale?

“Sono abbastanza efficaci in generale le comunicazioni che vedo a livello giornalistico e televisivo: di fatto non riescono davvero a cambiare le nostre abitudini. È più facile comprare qualcosa, ad esempio un frigorifero di ultima generazione che magari costa il doppio rispetto a uno normale, ma nell’arco di cinque anni ti fa risparmiare: è un comportamento che fatica a entrare nel nostro uso quotidiano. Credo di non sbagliarmi se dico che comprare un frigorifero di quel tipo corrisponde a posare qualche pannello fotovoltaico sui tetti delle nostre case. Ci sono quindi tanti comportamenti di un uso intelligente delle risorse, che senza togliere nulla a livello di qualità della vita, possono però essere parte di una mentalità che sta attenta al rapporto con l’ambiente, che considera l’ambiente un bene naturale: così come consideriamo il Colosseo un bene, chiaramente fatto dall’uomo, e pensiamo che sia interesse di tutti preservarlo, così anche un bosco, il parco che sta a pochi metri da casa nostra dovremmo abituarci a pensarli come una nostra ricchezza, un qualcosa che non va sprecato ma che anzi ogni giorno va difeso, pulito, sorvegliato, custodito con cura insomma. Io su questo piano vedo una comunicazione che a livello di impatto visivo risulta efficace ma poi sul piano dei comportamenti quotidiani, naturalmente più difficili rispetto al comprare un semplice oggetto come la pubblicità riesce bene a farci fare, c’è ancora qualcosa che non funziona, un collegamento che ancora non è aperto a quella necessità che dovremmo invece avere.”

Politiche ambientali, finanza, economia. Sponsorizzazioni, preorientamento della percezione positiva del marchio. Ingenti investimenti di tipo comunicazionale spingono a consumare risorse primarie, oltre quelle effimere. Un esempio che caratterizza l’Italia: le acque minerali. Cosa dice a questo proposito?

“Qui mi tocca su un tasto personale perché a me piace molto l'acqua minerale, l'acqua gassata: ho un comportamento ecologicamente non sostenibile perché l'acqua del rubinetto è in quasi tutte le città italiane un'acqua assolutamente potabile, buona. Sotto questo punto di vista sono in colpa, mi proclamo in difetto e dovrei io per primo comprare uno di quei sistemi di addizione di gas all'acqua del rubinetto: non lo faccio per pigrizia ma mi autodenuncio per quanto riguarda una delle abitudini sbagliate di cui parlo.”

Ci fa un esempio efficace di comunicazione ambientale?

“Devo dire che gli odierni spot televisivi dell'Eni sono un buon esempio e danno un'idea molto efficace di questa preoccupazione per l'ambiente: la cosa particolare è che vengono dal peccatore, da un ente che produce energia e che spesso viene criticato per non farlo in modo rispettoso dell'ambiente. C’è quindi una contraddizione, che poi è abbastanza tipica dell'universo dei media, che risiede nel fatto che spesso la comunicazione più efficace la fa chi si sente in colpa, chi ha da occultare scheletri nel proprio armadio. Un esempio contraddittorio quello che faccio: una buona comunicazione nasce dal senso di colpa di chi sa di dover coprire in qualche modo le proprie magagne.”

Una vecchia questione: è lo strumento il messaggio, o è il messaggio lo strumento?

“No in questo caso credo che oggi per tutto il mondo della comunicazione l'attenzione torna sul contenuto: credo che la frase di McLuhan «il medium è il messaggio» è sempre stata poco vera; è stata una frase a effetto ma McLuhan io personalmente l’ho sempre considerato un personaggio molto sopravvalutato, come spesso accade nel mondo della comunicazione. Non credo che sia mai stato vero che il medium è il messaggio: ciò che ha sempre fatto il messaggio è il contenuto, è quello che fa la differenza. Magari negli ultimi vent'anni ci può essere stata un po' di «ubriacatura» e quindi di culto della modernità per arrivare a scambiare il medium per il messaggio, però è vero che oggi i ragazzi che vivono in questo orizzonte digitale di moltiplicazione dei media, e che spesso trascurano proprio per questo la televisione preferendo Internet, per poter disporre di un universo così complesso tornano al contenuto; l'utilizzo di tanti media diversi li ha portati quindi a rivalutare quello che poi il messaggio vero, la sostanza delle cose.”

In che termini, oggi, si può parlare di un “allarme globale” rispetto alle conseguenze prodotte dal cattivo rapporto che c'è tra comunicazione e ambiente? Quali allarmi sono oggi sottovalutati e quali allarmismi si nascondono tra di loro?

“Oggi la difficoltà che abbiamo è che ogni problema è di natura globale: se prendiamo ad esempio le tossicodipendenze, le persone hanno meno difficoltà a spostarsi e quindi è inutile inasprire le pene contro gli spacciatori di droghe se poi nel paese accanto c'è un circolo più permissivo. Qui c'è dunque un ritardo della politica ad assumere una dimensione sovranazionale e quindi globale: credo che quasi tutti problemi che abbiamo oggi non possano essere risolti a livello nazionale. Ho fatto l'esempio delle tossicodipendenze ma vale anche per l'inquinamento: il pericolo nucleare, il traffico automobilistico, le emergenze delle petroliere, lo smaltimento dei rifiuti, tutte queste sono emergenze che la politica non è in grado di affrontare perché non è abituata o diciamo muove appena i primi passi in una dimensione sovranazionale. Da secoli la politica ragione in termini nazionali che oramai sono inadeguati per quasi tutte le questioni del genere. Per quanto riguarda allarmi e allarmismi, poi, l'effetto cumulativo porta a lasciare le cose come stanno: se le emergenze sono tante alla fine ci si trova disarmati, impotenti e allora anche lì ci sarebbe bisogno di un'agenzia sovranazionale che mette in fila quelle da affrontare con più decisione, come ad esempio impegnarsi a trovare i fondi per le energie sostenibili oppure trovare un mezzo di locomozione che non inquini. C'è insomma bisogno di una classifica delle emergenze altrimenti l'uomo si trova di fronte a questo moltiplicarsi di allarmi, tutti giustificati, però che messi insieme creano impotenza anche nel cambiare le abitudini di cui si parlava prima. Se ci sono talmente tante cose di cui preoccuparsi allora non cambia nulla, diventa tutto inutile: la sensazione di rifiuto nasce rispetto a un moltiplicarsi di allarmi ma bisognerebbe fare una scala delle priorità.”

Ci sono a suo avviso eco-mode orientate dalla comunicazione di specifici canali massmediali?

“Direi di no. Ognuna di queste mode in realtà nasce da un'esigenza: le cose non si inventano quando si affermano in questa maniera; è difficile bluffare quando bisogna convincere tante persone. Se ci si riesce vuol dire che in realtà la moda ha un fondamento di giustizia e verità.
Il problema è quello di non farne, appunto, una moda ma di farla diventare un'abitudine, una forma mentale quotidiana. Qui c'è una lezione da imparare dall'Africa: in molte tribù africane la parola «sviluppo, crescita» non si può tradurre perché loro vengono da una cultura ancestrale, millenaria, in equilibrio con l'ambiente; non pensano insomma alla natura come un qualcosa che l'uomo deve dominare e sfruttare ma pensano alla natura come un qualcosa nel quale l'uomo deve inserirsi facendo meno danni possibile. Quella che per molti decenni abbiamo considerato una forma di cultura atavica, anacronistica, da cancellare attraverso il progresso, in realtà invece forse ci può insegnare qualcosa e cioè che questo ambiente non è disponibile all'infinito al nostro sfruttamento, dobbiamo preoccuparci per la sua conservazione nel tempo; c'è un modo di pensare anche rispetto alla generazione future, e chi ha figli questo lo percepisce in maniera immediata, perché non è che possiamo depredare tutto senza preoccuparci delle generazioni future. C'è un patto che deve funzionare, un vedere al di là del proprio tornaconto immediato, una coscienza globale. Faccio un esempio: oggi noi aiutiamo ogni anno, con varie forme di assistenza, i paesi più poveri e quel volume di aiuti oggi sarebbe sopravanzato di gran lunga dalla semplice apertura dei nostri mercati agricoli; se invece di proteggere ad oltranza quella specie ormai in via di estinzione che sono i nostri contadini, aprissimo il nostro mercato ai prodotti agricoli che vengono dall'Africa, dai paesi più poveri, noi daremmo una mano molto superiore per volume, per quantità, per efficacia rispetto a tutti gli aiuti che diamo in soldi. Dico questo perché si tratta di un esempio molto scabroso.”

Come giudica il giornalismo attuale e quali sono le trasformazioni più importanti che hanno interessato il giornalismo per quanto riguarda il linguaggio e per ciò che concerne i rapporti tra informazione e contesto storico?

“La trasformazione più grande la stiamo vivendo in questi anni ed è la trasformazione data dal Web, da Internet: ormai abbiamo uno spostamento del centro di gravità del sistema delle comunicazioni dai media tradizionali, tv ecc. a mondo del Web, social network, blog e a tutte le esperienze di citizen journalism, di giornalismo partecipativo. Questo comporta chiaramente dei rischi perché ognuno può diventare un giornalista: le immagini degli attentati, delle centrali nucleari devastate in questi giorni, vengono girate da singoli cittadini con i loro telefonini, con strumenti di uso quotidiano tramite i quali stabiliscono una prima forma di comunicazione. Le informazioni in tempo reale si trovano su Twitter, sul Web appunto. Il pericolo di riguarda la professione giornalistica, la perdita di una professionalità nella mediazione, nella conoscenza; questo rischio però è anche la radice di un grande cambiamento: i ragazzi non comprano più i giornali e non guardano più nemmeno la televisione generalista ma si informano sul Web.
Questi stessi media diventano poi anche strumenti di mobilitazione: oggi abbiamo molti allarmi sui nostri ragazzi, che diventano sempre più solitari, non escono, convivono con il computer ma quello stesso strumento diventa una leva di mobilitazione straordinaria in situazioni come quelle che hanno toccato in questi giorni il Maghreb. Quindi non sta cambiando solo il mondo del giornalismo ma stanno cambiando anche i rapporti sociali, soprattutto per quanto riguarda le ultime generazioni che sono digital native, nate e cresciute padroneggiando questa varietà di mezzi di comunicazione, impensabile soltanto vent’anni fa.”

Lei ha diretto dal 2000 al 2007 il Gabinetto Viesseux di Firenze: quanto è importante questo canale per la circolazione dei saperi e quali altri canali potrebbero essere a suo avviso efficaci per la formazione delle giovani generazioni?

“Si tratta di un gabinetto di lettura ottocentesco che nell'Ottocento, appunto, ha fatto la storia dell'Europa: è una piccola biblioteca dove sono passati Dostoevskij, Bakunin, Twain. Il patrimonio che conservano è una cosa unica, straordinaria. Oggi cambia il modo di fruizione di questo patrimonio perché quello che dicevo prima sul Web va applicato anche ai Beni Culturali: abbiamo dunque il dovere di rendere il sapere accessibile a tutti, di dare a un numero sempre maggiore di abitanti del pianeta la possibilità di conoscere questi strumenti. Non bisogna più muoversi nell'ottica della conservazione del patrimonio ma viceversa nell'ottica di popolarizzazione e divulgazione: bisogna insomma trovare ogni giorno le strade più accattivanti, ad esempio tramite la pubblicità, per accendere l'interesse verso questi patrimoni che in Italia abbiamo in percentuali ben più alte rispetto che in altri paesi.”

Tra gli altri sono previsti interventi su Comunicazione, ambiente e architetture: cosa pensa degli ultimi sviluppi che riguardano gli interventi nell’area di Castello a Firenze per cui, già nel 2008 in qualità di assessore alla cultura del Comune di Firenze, espresse parere contrario?

“Io credo che non succederà nulla: lì c'è un vecchio progetto che oramai risale a quasi vent’anni fa ed è quello che con fatica verrà portato fino in fondo. Non credo che la Cittadella Sportiva vedrà mai la luce perché non mi sembra di vedere, negli imprenditori che l'hanno proposta, le energie e le risorse necessarie per portarla a termine: dove lo si è fatto si è avuta una transazione privata tra imprenditori, senza coinvolgere l'amministrazione locale.
Ho l'impressione che, come diceva Shakespeare, «ci sia stato molto rumore per nulla»: magari mi sbaglio però ho l'impressione che questa sia la sensazione che si ha anche in città, a Firenze.”

 

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Francesca De Rosa

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