Intervista ad Antonio Varsori, storico dell'integrazione europea nell’anniversario della crisi dei missili di Cuba
Intervista ad Antonio Varsori, storico dell'integrazione europea nell’anniversario della crisi dei missili di Cuba
Antonio Varsori, presidente della Società Italiana di Storia Internazionale e titolare della cattedra Jean Monnet presso la Facoltà di Scienze Politiche di Padova, è intervenuto al convegno "Un’isola caraibica nella guerra fredda: Cuba e la crisi dei missili", organizzato dall’Orientale nella ricorrenza dei 50 anni dalla crisi dei missili
L’informazione è fondamentale, specie quando ci sono conflitti in corso, ma non è facile fare i conti con le “propagande”. All’epoca della Guerra Fredda, è vero che, specie in Italia, era piuttosto difficile avere le idee chiare su cosa stesse succedendo?
Dipende cosa intendiamo per idee chiare. Se intendiamo che ci fosse una situazione di crisi, non dimentichiamo che Fanfani venne avvisato immediatamente come tutti gli altri leader europei, appunto, dall’amministrazione americana. Dunque, credo che ci fosse una confusione in termini generali per quello che stava accadendo, non credo si andasse oltre questo. In realtà, devo dire che, per gli italiani e per l'allora presidente del consiglio Fanfani, la tensione di questa fase si concentrava esclusivamente sulle questioni di politica interna. Infatti, mancavano pochi mesi alle elezioni politiche che avrebbero deciso se fosse stato possibile fare o meno il centro sinistra, poi i rapporti tra i politici non erano semplici, e c’era la necessità di avere un sostegno, una base americana, un punto per la “nuova” politica. La mia sensazione è che gli Italiani fossero concentrati molto su questo e, per quanto riguarda le questioni internazionali, non dimentichiamoci che, in questo periodo, tutti sono concentrati più sulle questioni europee: si era appena conclusa la questione relativa al “piano Kruscev” ed era una fase molto delicata del negoziato dell’eventuale ingresso della Gran Bretagna nella comunità europea. Quindi, credo ci fosse più questa tensione che non quella di concentrarsi sulla questione di Cuba.
A proposito di Europa, qual è stato il peso dell’ONU nel periodo della Guerra Fredda, e com’è cambiato questo peso cinquant’anni dopo?
Non dimentichiamo che l’ONU, dopo l’inizio della Guerra Fredda, diventa uno strumento non dico inservibile, ma certo sostanzialmente bloccato dalla contrapposizione “Stati Uniti-Unione Sovietica”. L’ONU viene utilizzato durante la crisi dei missili come una specie di luogo dove le posizioni delle parti vengono svolte anche in maniera abbastanza polemica e, nella sostanza, non si va oltre questo. L’ONU acquisisce un carattere diverso, non a caso, dopo la fine della Guerra Fredda quando, per una decina di anni negli anni Novanta, si ebbe questa convinzione che l’ONU fosse uno degli strumenti in grado di gestire il nuovo ordine internazionale. Una fiducia che, dopo l’11 settembre 2001 e in seguito ad una serie di episodi non particolarmente “felici”, è forse andata un po’ scemando.
La crisi dei missili – con l’istituzione del “telefono rosso” – ha dato prova che i leader dei singoli Paesi dovrebbero sapersi ascoltare di più gli uni con gli altri, o è stata solo una maschera di facciata?
Credo che abbia avuto un impatto soprattutto sull’opinione pubblica. È stata un sintomo, alla fin dei conti, della comprensione da una parte e dall’altra che una guerra poteva scoppiare per errore, e che sia l’uno sia l’altro non avevano l’intenzione di far scoppiare una guerra per errore. Potremmo dire che è stato uno strumento che – al di là del nome, non era né un telefono e né tantomeno era rosso, ma era un telefax degli anni Sessanta – ha dimostrato l’intento di entrambi di volere agire razionalmente. E, perciò, di voler evitare che una guerra fosse scatenata per una mancanza di comunicazione. C’è un confronto in cui si è ostili, però, c’è anche la razionalità alle spalle, e non è una cosa da poco. Devo dire che il cosiddetto “telefono rosso” è la prova della comprensione, che alla guerra nucleare non c’è ritorno una volta che è iniziata, perché tutto finisce.
Oggi giorno, la crisi dei missili fa pensare un po’ a cosa sta succedendo in Medio Oriente e, forse, si può avere la percezione che una Guerra Fredda sia in corso, anche se sia uscita fuori dall’Europa?
È una cosa diversa, non dobbiamo dimenticare che non ci sono più due “attori” così forti che condizionano tutto il mondo, come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica all’epoca. Certamente, ci sono minacce e l’arma atomica resta una minaccia pesante, ma è pur sempre di tipo diverso rispetto a quella concepita durante gli anni della Guerra Fredda. Va interpretata in maniera differente, anche perché ci sono motivi chiave di contrasto che hanno caratteri diversi da quelli degli anni Quaranta fino alla caduta del muro di Berlino, e cioè un conflitto di tipo globale. Ora, invece, esistono comunque queste minacce ma sono più “regionali”, cioè possono essere localizzate in luoghi ben precisi, anche se questo non ne diminuisce chiaramente la loro pericolosità. È un modo diverso di concepirlo, però, perché ci sono anche progetti diversi, strategie differenti, c’è stata una trasformazione delle tecnologie e tutto ciò fa molta differenza.
A proposito di queste “minacce”, c'è chi suggerisce che gli USA potrebbero ricercare una soluzione che permetta di raggiungere una maggiore stabilità in Medio Oriente – tipo con la legittimazione dello stato palestinese –, specie per le risorse energetiche, piuttosto che una guerra dalla portata incalcolabile. Cosa pensa al riguardo?
Il problema dello Stato palestinese si pone ormai da trent’anni, e siamo ancora qui. Certo, oltre la questione degli armamenti nucleari, c’è anche la questione delle risorse energetiche. In questo caso, devo dire che, è vero, l’amministrazione Obama è partita quattro anni fa, con grandi ambizioni e carica di grandi speranze, ma in realtà il problema che ha di fronte è rappresentato dall’incremento o meno della disoccupazione, la crescita economica e, quindi, è un momento per gli Stati Uniti – come per l’Italia – in cui i veri problemi sono più di “natura” interna. Nel senso che, sicuramente c’è l’Iran e la situazione del Medioriente, ma le preoccupazioni dell’americano medio e dell’amministrazione statunitense, ora come ora, non sono certo più di tanto la politica estera quanto quella interna, come appunto la disoccupazione.
Secondo lei, può essere valida l’affermazione per la quale si dice che sono stati gli Stati Uniti a vincere la Guerra Fredda?
Bella domanda. Io direi che forse l’ha persa più l’Unione Sovietica, la Guerra Fredda. Gli Stati Uniti sono abituati a vincerla, ed è una cosa un po’ differente. Potremmo dire che quello che ha vinto, almeno per un certo periodo di tempo, è stato un certo tipo di modello, un certo tipo di società. Ma non nel senso di società “americana”, ma abilmente quel modello di adattamento alla modernità, la capacità di portare avanti la modernità. Una cosa in cui ha fatto molta fatica l’Unione Sovietica: un paese in cui, negli anni Ottanta, un cittadino comune non poteva possedere una macchina da scrivere o una macchina delle fotocopie, e questo è l’esempio di una società bloccata, chiusa e ferma di fronte alla modernità. Quindi possiamo dire che è stata la modernità a sconfiggere l’Unione Sovietica, ma che gli Stati Uniti sono stati, in qualche modo, i campioni di una certa modernità.
Annacarla Tredici
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