Intervista a Camille Schmoll
Intervista a Camille Schmoll
Invitata nell'ambito dell'accordo Erasmus con Parigi VII, ha tenuto due lezioni nel corso del prof. Fabio Amato. La sua tesi di dottorato fu incentrata sulle relazioni migratorie ed economiche di Piazza Garibaldi, crocevia insospettato di scambi e relazioni di livello internazionale.
Camille Schmoll, qual è il ruolo delle discipline geografiche nello studio delle migrazioni internazionali?
“Amo dire che la mia attività rientra nel campo degli studi migratori perché trovo molto interessante avere la possibilità di uno studio all’incrocio di varie discipline. L’interdisciplinarietà è il motivo per cui mi sono occupata di migrazioni e per cui molti studiosi trovano interessante questo studio. Credo che nelle scienze sociali gli studi migratori costituiscano un campo a sé, come ad esempio gli studi urbani. Ogni giorno lavoro con geografi ma anche con sociologi, antropologi e architetti, e mi sembra molto interessante poter incrociare le prospettive. Il contributo specifico della geografia, invece, è dato dalla capacità di ragionare in termini di scalarità nel momento in cui si analizzano le dinamiche urbane. La geografia è interessata non solo all'impatto spaziale dei flussi ma anche alle questioni scalari: per esempio ci permette di articolare riflessioni in termini di luoghi, di quartieri, di territori, ma anche di scale di grandezza. Questo è un aspetto che mi interessa molto ed è un elemento degli studi geografici che viene riscoperto anche da altre discipline. Consiste nel guardare a come i fenomeni locali – come per esempio l'arrivo di alcuni gruppi in un quartiere o in altri luoghi specifici – si trasformino in dinamiche che coprono altre scale: dinamiche urbane, dinamiche nazionali e internazionali. Un esempio sono le reti sociali dei migranti cioè delle relazioni che coprono delle scale di grandezza transnazionali. Quindi l'articolazione di diverse scale è ciò su cui riflette maggiormente il geografo, in questo particolare ambito.”
In cosa consistono le metodologie di ricerca qualitative che lei applica? Qual è la loro importanza?
“Le metodologie qualitative per lo studio delle migrazioni hanno almeno due importanti aspetti: il primo è che permettono di vedere delle cose che sono difficilmente visibili attraverso i dati ufficiali come i censimenti di cui si occupano i metodi di ricerca quantitativi. Se si osservano le attività economiche dei migranti, per esempio, ci si accorge che spesso non sono esercitate ufficialmente; inoltre ci sono molte sfere della vita quotidiana, e parlo della vita in generale, che non possono essere inquadrate dalla statistica. È proprio per questo che la questione della mobilità è molto interessante. A Napoli molti quartieri sono frequentati da migranti o da altre persone, come turisti o studenti, che non possono essere rintracciate attraverso la statistica. Quindi i metodi qualitativi di ricerca permettono di dare conto delle pratiche, come per esempio l'uso commerciale di un quartiere come Piazza Garibaldi, che non potrebbero essere rintracciate tramite i dati statistici. Inoltre, il secondo aspetto importante dei metodi qualitativi è che essi permettono di guardare al significato che danno gli individui alle proprie storie, alle proprie traiettorie, e agli spazi in cui agiscono.”
Come mai ha scelto di compiere la sua indagine a Napoli? Cosa l’ha portata in questa città?
“È una storia semplice e vista molte volte, nel senso che sono arrivata a Napoli nell'ambito di uno scambio Erasmus nel ‘97 – si trattava di uno scambio con l'Orientale, e anche per questo sono molto contenta di essere qui oggi – e dovevo preparare la mia tesi di laurea in Storia, ciò che studiavo in Francia. Ho avuto un impatto fortissimo con la città e si può dire che Napoli abbia cambiato completamente la mia traiettoria. Avevo in mente un argomento preciso e avevo preso contatto con gli studiosi di storia dell'Ateneo per fare una ricerca sull'immagine dell'Africa nei manuali storici durante il fascismo. Ma quando sono arrivata sono stata colpita dall'importanza dell'immigrazione: era la fine degli anni Novanta, un'epoca in cui c'è stato un aumento consistente dei flussi migratori e ho avuto voglia di confrontarmi in qualche modo più direttamente con la città e con la gente in carne e ossa.”
Dalle conclusioni a cui è giunta quale è il ruolo che emerge a proposito di Piazza Garibaldi?
“La cosa che colpisce molto di Piazza Garibaldi – ed è infatti uno degli aspetti più studiati – è che si distingue dal resto della città: anche se guardiamo alla trasformazione urbana degli ultimi vent’anni, si vede che è abbastanza periferica rispetto al centro storico, per esempio. Nello stesso tempo, Piazza Garibaldi ha una centralità fortissima e ha un ruolo simbolico perché è una specie di luogo di filtraggio delle popolazioni, ed è quello che abbiamo studiato sia io sia Fabio Amato e altri. È qui che lo studio delle scale di grandezza è importante. Se si guarda la scala del Mediterraneo, Piazza Garibaldi diventa un centro: non un piccolo centro ma un centro fortissimo. Ciò significa che viene gente da tutto il Mediterraneo a comprare merce, ma è anche un centro di smistamento, perché c'è anche chi viene a Piazza Garibaldi, magari dorme in albergo e resta lì qualche giorno, e poi viene smistata in tutta l'area urbana e suburbana sempre per questioni collegate al commercio. È infine un grande luogo di consumo per popolazioni di tanti paesi. Bisogna immaginare che c'è gente che prende la nave per andare a comprare merce a Piazza Garibaldi e che c'e tutta un'economia attorno a questo commercio. In questa prospettiva, un caso particolare è quello degli ambulanti che acquistano la merce in questa piazza per poi rivendere in tutta Italia e su scala internazionale; ad esempio ci sono tanti commercianti francesi e nordafricani che comprano a Napoli e vendono poi sui mercati o nei negozi di altri paesi. E il ruolo di questo commercio finora era stato sottovalutato: si pensa sempre che l'ambulante sia un 'poveraccio' e invece è l'impatto economico di questo commercio merita grande attenzione. Molta della gente che lavora negli alberghi, infatti, vive proprio grazie a questo tipo di affari e non solo con il turismo.”
Questo ruolo è ricoperto da altre città nel Mediterraneo? Pensiamo ad esempio a Marsiglia, per tanti aspetti simile a Napoli...
“Marsiglia è stata la prima, negli anni Ottanta, ad essere un luogo di smistamento e di compravendita importantissimo. Poi sono successe diverse cose, tra le quali il fatto che la Francia abbia rinunciato per molti versi alla sua vocazione Mediterranea. Per esempio è stato istituito il visto per gli algerini che entravano in Francia, mentre prima non era necessario. Inoltre ci sono state delle politiche migratorie molto restrittive e, soprattutto a Marsiglia, dove sono state applicate, si parlava di ripulire e risanare la città. Sono espressioni molto forti, tuttavia in parte si è riusciti in questo intento e molte persone che tradizionalmente si recavano a Marsiglia per il commercio – come gli algerini – durante gli anni Novanta si sono spostate a Napoli e hanno cominciato a fare affari in questa città. Infatti, proprio in quegli anni si crea una linea di trasporto tutta informale tra le due città. Non so se esistano ancora, ma ancora all'inizio del Duemila, c'erano addirittura tre compagnie di autobus che facevano il viaggio Napoli-Marsiglia tre volte a settimana. Gli algerini, ad esempio, una volta arrivati in nave a Marsiglia prendevano un autobus fino a Napoli per venire a comprare merce, alloggiando in un paio di alberghi del Vasto specializzati nell'accoglienza di algerini, prima di fare ritorno a Marsiglia. Parte della merce veniva venduta in Francia e parte invece tornava in Algeria e veniva venduta sui mercati locali. Per questo è possibile parlare di un vero e proprio circuito, e come questo ce ne sono tanti. Per esempio ho seguito un gruppo di signore che vendono sui mercati in Tunisia e che vengono a Napoli una volta al mese per tre o quattro giorni: qui vengono accolte da intermediari tunisini che le portano in diversi luoghi per comprare intimo in zona vesuviana prima di tornare con la nave in Tunisia per rivendere la merce.
Quando parlavo di ciò che non si vede attraverso i dati, facevo riferimento a pratiche e circuiti come questo, che non possono essere rintracciati con i soli metodi di ricerca quantitativi.”
L’area napoletana è inserita così in un circuito enorme collegandosi con la manifattura cinese, molto forte in zona vesuviana...
“Sì, i commercianti acquistano sia merce cinese sia merce italiana ma è un circuito molto più complicato perché ci sono anche prodotti ibridi; alcuni prodotti, come i falsi, sono prodotti cinesi che vengono trasformati in Italia.”
Come è stata svolta l'indagine a Napoli?
“Si trattava di un'indagine etnografica: sono stata tutti i giorni sul posto cercando di incontrare delle persone disposte a lasciarsi accompagnare durante le loro attività e, dopo molti tentativi non andati a buon fine, qualcuno ha accettato. Due o tre persone mi hanno molto aiutato in questa fase, per facilitare il contatto.”
Qual è la sua valutazione delle migrazioni nel Mediterraneo?
“È molto strano perché c'è una doppia dinamica. Da un lato si vede una chiusura molto forte e il rifiuto delle migrazioni da parte dei paesi europei. Per questo il Mediterraneo è diventato una frontiera in movimento: talvolta la 'frontiera' è sulle isole, talvolta dentro i territori. In questo processo, inoltre, hanno un loro peso anche il ruolo dei paesi terzi e il forte impegno dei paesi del Nord Africa, incoraggiati dall'Europa, nel fermare i flussi migratori. Ma vi sono anche i paesi dell'Est Europeo, ecco perché il Mediterraneo appare come una frontiera molto forte che segue le dinamiche politiche, i cui flussi migratori si riaggiustano di conseguenza. Allo stesso tempo, inoltre, ci sono delle specie di macchie di opportunità: luoghi in cui, in un determinato momento – sia perché i controlli sono meno forti sia perché non si può controllare tutto – si presentano una serie di possibilità per cui questi stessi luoghi diventano sedi di un cosmopolitismo avanzato che si sposta così come le frontiere; proprio come nel caso di Marsiglia.”
La penultima pubblicazione da lei curata si occupa delle seconde generazioni di immigrati. Quali sono state le sue conclusioni e quale è la specificità italiana rispetto ad altri paesi?
“Posso fare un paragone con la Francia. Si tratta di due questioni: c'è una questione di temporalità, che è molto importante, e poi una questione legata alla specificità dell'Italia. La questione temporale è che oggi, nel contesto di ritiro generalizzato del welfare in tutti i paesi europei, le politiche di integrazione sono sempre di meno. L’Italia non è un paese di immigrazione da molto tempo e per questo non ha nemmeno ideato delle politiche migratorie che oggi, comunque, risentono del ritiro generalizzato del welfare. La seconda specificità è l’esasperato localismo di queste politiche, per cui non esiste omogeneità. Un terzo punto a cui guardare è che le seconde generazioni, costituite perlopiù da giovani o giovanissimi, sono iperconnesse, iperglobalizzate e viaggiano tantissimo e quindi hanno contatti con mondi diversi. Per questo motivo è necessario evitare prospettive nazionali quando si affrontano tali questioni. Un problema di grande importanza è la mancanza di integrazione delle seconde generazioni, ma non è un problema solo italiano. È una questione di definizione dell'identità europea, di quello che vogliamo essere e diventare e che, per il momento, ancora non è chiaro.”
Questa mancanza di integrazione si manifesta molto, ad esempio, in ambito scolastico.
“Ci sono, fra gli studenti, quelli molto bravi. La mancanza di politiche di integrazione fa sì che quando, ad esempio, arriva un ragazzo cinese a scuola non si faccia niente per aiutarlo. Ma egli non può, da un giorno all'altro, imparare l’italiano, anche se in Cina era un bravo studente. E questa difficoltà è testimoniata dal fatto che gli studenti di seconda generazione ripetono molte classi quando non dovrebbero farlo perché hanno un livello alto di preparazione. Tuttavia, siccome le politiche di integrazione sono carenti, studenti anche bravi accumulano ritardi che hanno un peso sulla loro formazione.
Un altro elemento molto importante relativo all'integrazione – e di cui ci si rende conto – è che il momento in cui la generazione di arrivo si stabilisce nel nuovo paese. I bambini che sono nati o che sono cresciuti nei primi anni di vita in Italia hanno molte più chance di farcela, di riuscire a scuola o sul mercato del lavoro rispetto ai bambini che arrivano in Italia arrivati più tardi. Ciò vuol dire che, in qualche modo, il Paese riesce a trovare forme di integrazione.
L'ultimo punto, che per me è molto importante, è che non bisogna porre su un piano di confronto o competizione il paese d'origine e il processo di integrazione: si può essere perfettamente integrati pur mantenendo dei legami molto forti con il proprio paese d'origine; e, purtroppo, spesso c'è una tendenza a contrapporre questi due mondi.”
Di cosa si sta occupando adesso?
“Da due anni seguo dei migranti lavorando a Malta, quindi non più in Italia ma comunque molto vicino. Malta condivide molte delle questioni che sta affrontando l'Italia in questo momento, come il problema dei flussi irregolari che arrivano dal Nord Africa e dalla Libia, in particolare. Sto cercando di ricostruire le traiettorie degli africani che arrivano a Malta in questo periodo, soprattutto negli ultimi sei mesi.”
Com'è stata l'esperienza di ricerca a Napoli? Ha trovato delle difficoltà, c’è qualcosa che vorrebbe cambiare o al contrario mantenere?
“A Napoli è necessario avere molto tempo per lavorare, ma questo vale un po' per tutti i lavori etnografici: bisogna veramente prendersi il tempo per conoscere le persone ed essere molto determinati. Se questo è il lato negativo, il lato positivo è che Napoli è una città molto accogliente e la gente è disposta a dialogare, forse proprio perché i tempi della vita quotidiana sono un pò dilatati e c'è la capacità di fermarsi un attimo a discutere di qualcosa. Questa è un'opportunità fondamentale. E poi L'Orientale, questa vostra straordinaria Università, è un luogo in cui ci sono tantissimi stimoli: per esempio c'è una disponibilità degli insegnanti che altrove non è facile trovare. La prima volta che sono arrivata a Napoli – ed è stato il mio primo impatto con l'università in Italia – sono andata a un seminario e alla fine del corso siamo andati a prendere il caffè col professore. Sembra una stupidaggine ma non mi è capitato mai niente di simile a Parigi.”
Come descrive il suo rapporto con Napoli?
“Sicuramente quando si è stranieri si vedono le cose un po' diversamente, nel senso che ho vissuto la città da studentessa e quindi ho avuto la fortuna, per esempio, di convivere con altre persone in diversi quartieri e quindi di esplorare molte zone di Napoli. Adesso, quando torno a Napoli, spesso torno in famiglia quindi è un'altra esperienza ancora. Oggi, poi, la sto sperimentando da mamma e anche questo è divertente perché ti permette di vedere la città sotto altri aspetti. È interessante perché ti fai un'altra cartografia della città, dei luoghi che sono accessibili, di quelli che lo sono meno ma anche del rapporto che hanno i bambini con la città. Quindi è sempre una nuova scoperta, secondo le fasi della vita.”
Ha trovato dei cambiamenti ritornando?
“Ho l'impressione che la fase di maggiore cambiamento sia passata. Quando sono stata a Napoli, nel decennio tra il 1997 e il 2005, la città attraversava una fase di cambiamento incredibile: la riscoperta del centro storico, l'inizio della metropolitana... ed era una fase anche molto ottimista. Adesso l'impressione, da fuori, è che le cose siano un po' più difficili. Ieri sono stata ad esempio a Piazza Garibaldi ma non ho visto tantissimi cambiamenti, non nello spirito delle cose.”
Come si parla di Napoli in Francia?
“La Francia è stata molto colpita dal libro di Saviano, quindi l'immagine di Napoli è molto legata ormai all'immaginario costruito attorno al libro e al film. Quello che cerchiamo di fare nel nostro piccolo – perché sono parte di un gruppo di persone che nella mia università fanno ricerca sull'Italia – è appunto cercare di rendere più complessa quest'immagine della città. Anche invitando gli studenti a recarsi a Napoli per avere un impatto diretto con la realtà delle cose. Napoli è un posto eccezionale in Europa, e l'Orientale è la sede in cui si possono acquisire gli strumenti per comprendere realtà come quella rappresentata da Napoli e da tutte le Napoli del mondo.”
Che ricordo ha di Pasquale Coppola?
“Ci sono diverse generazioni di ricercatori francesi che sono stati dei figli spirituali di Coppola. Aveva un rapporto forte con la Francia ed è stato per questo una figura di riferimento molto importante per i geografi francesi.
Quella di Paris X – Nanterre, con Colette Vallat ad esempio, è stata la prima generazione; poi c'è stata la seconda generazione, quella di Dominique Rivière à Paris VII, nella mia università. Poi c'è Pascale Froment, e ci sono io... Tutte queste persone che sono arrivate a Napoli sono sempre state accolte benissimo. Questo spiega perché abbiamo sviluppato un rapporto stretto con la città, un rapporto non solo collaborativo ma che è qualcosa di più. Per questo posso dire che Coppola è stata una figura di riferimento molto importante.”
Quindi possiamo definire forti i rapporti dei geografi francesi con i colleghi dell’Orientale?
“Si, ci sono stati rapporti saldi. Per noi era la terra d'accoglienza; per questo, forse, si può spiegare perché i geografi francesi che hanno lavorato in Italia lo hanno fatto quasi tutti a Napoli; c'era l'accoglienza calorosa e interessante di Coppola e di quelli che erano attorno a lui.”
Salvatore Chiarenza
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