Intervista a Emanuele Banfi

 

Intervista a Emanuele Banfi

Emanuele Banfi

Per studiare le lingue bisogna avere buoni microscopi

Professor Banfi, nei prossimi giorni lei sarà a Napoli per una Giornata di studio con Federico Albano Leoni organizzata dall'Università degli Studi di Napoli Federico II e dall'Università degli studi di Napoli “L'Orientale”. Quali sono i punti di contatto tra il suo percorso e quello del professor Albano Leoni?

“Senz’altro direi l’attenzione che entrambi abbiamo per i dati linguistici ‘reali’ e, insieme, l’interesse per la dimensione storica inscritta nei fatti linguistici.”

Un elemento di vicinanza ed uno di divergenza tra lei e il professore Albano Leoni: concezioni, approcci, metodi, prospettive.

“Elementi di vicinanza, molti. Elementi di divergenza: direi proprio nessuno.”

Quale aspetto della ricerca di Federico Albano Leoni metterà in evidenza con il suo contributo? Può spiegarci come nasce l'accattivante titolo scelto?

“Sottolineerò, tra l’altro, la capacità che Federico Albano Leoni ha avuto nel coniugare molti e diversi piani d’analisi e l’enorme contributo che lui ha dato, oltre che nel settore della germanistica, anche in quello degli studi fonetico-fonologici e nella ricerca sull’italiano parlato. Quanto al titolo del mio intervento: è certamente un po’ sibillino, ma è una sorpresa. Quindi: un po’ di pazienza…”

Lei è stato allievo di Vittore Pisani. Vuole raccontare un ricordo, un aneddoto o un'eredità del suo maestro?

“Moltissimi sono i ricordi che ho di Vittore Pisani. Molti gli aneddoti ma, forse, uno in particolare mi sento di dovere comunicare. E cioè il suo dispiacere, ripetutamente sottolineato in molte conversazioni, per non avere condotto in prima persona ricerche su dati linguistici ‘reali’ (sul parlato, quindi) e, conseguentemente, per avere soprattutto considerato le lingue nella loro dimensione filologico-letteraria. Da grande indo-europeista quale era, a me che gli chiedevo consigli su come affrontare il problema della semplificazione dei sistemi linguistici (e, più in particolare, il tema della semplificazione sottesa al farsi delle fasi ‘volgari’/ ‘tarde’ del greco e del latino vedendone i parallelismi con fatti simili presenti nel diasistema dell’italiano: italiano popolare, italiani regionali, ecc.), Vittore Pisani mi diceva che tali problemi erano quanto mai attuali; che, anzi, «gli indo-europei… siamo noi» e che, quindi, occuparsi di greco e latino ‘volgari’, così come dei piani ‘bassi’ dell’architettura dell’italiano significava fare luce su segmenti speciali del divenire di segmenti importanti del quadro linguistico indo-europeo.”

Un consiglio del suo maestro (o dei suoi maestri) del quale non avrebbe potuto fare a meno e che ha seguito.

“Vittore Pisani aveva un senso preciso delle complessità della dimensione esistenziale e, in tal senso, consigliava bonariamente ai suoi allievi di non porre come prioritari gli obiettivi professionali. Pisani invitava i suoi allievi a dare ‘giusta’ importanza alle cose della professione, tenendo conto però che la vita è fatta di molti tasselli, tutti importanti e tutti soprattutto da fare armonicamente ‘collimare’ nella sinopia del mosaico del vivere di ciascuno, singolarmente. Un modo di vedere le cose molto equilibrato, direi quasi… confuciano.”

E il consiglio che non ha seguito?

“Nessun consiglio che io non abbia seguito, nel senso che la ricchezza umana e intellettuale di Vittore Pisani non gli hanno mai fatto dire cose prive di sostanza, cose in qualche modo rifiutabili: in lui era saldissimo il senso della misura, da buon laico quale era, lontano da ogni fanatismo.”

Quale consiglio darebbe ad un giovane interessato agli studi linguistici in un momento in cui le scienze umane faticano a veder riconosciuto il ruolo che spetta loro nella formazione dell'individuo così come nella sua spendibilità nel mondo del lavoro?

“I tempi sono orribili, soprattutto per i giovani. Tutti lo sappiamo. Ad un giovane io dico però di non demordere, di mantenere vivi gli interessi per lo studio e per la ricerca. ‘A nuttata’, come dicono a Napoli, passerà un momento o l’altro. O no?”

Pensa che oggi sia ancora possibile aspirare ad essere un linguista completo, ossia arrivare ad una visione d'insieme senza perdere di vista la profondità dei singoli fenomeni? Se sì, qual è la strada?

“Oggi la ricerca in linguistica, così come anche in altri ambiti del sapere, è articolata in molti segmenti. Evidentemente ciò è bene, è segno di forte vitalità. Ad un giovane aspirante linguista direi certamente di farsi specialista nel proprio terreno di ricerca (eventualmente anche molto ‘parziale’) tenendo presente comunque la complessità dei problemi che si pongono a chi indaga i fenomeni linguistici. Occorre avere buoni microscopi. E insieme, però, occorre anche sapersi ‘alzare’ sopra i ‘propri’ orizzonti e vedere le cose nella totalità del quadro in cui sono inserite.”

Gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni hanno condizionato gli studi linguistici consentendo l'esplorazione di nuovi settori grazie a nuove e sempre più sofisticate strumentazioni, ampliando i confini della ricerca e della diffusione del sapere. D'altro canto, l'ampliarsi dei confini di studio è andato di pari passo con una sempre maggiore specializzazione e concentrazione dell'indagine su fenomeni linguistici puntuali e circoscritti. Cosa deve fare un giovane linguista per non rischiare di restare ancorato al dato particolare?

“Mi sento di ripetere quanto ho detto poc’anzi: che il giovane linguista si munisca di buoni, anzi ottimi microscopi e, insieme, sappia però che esistono anche agili mongolfiere che permettono di cogliere, da punti alti dell’orizzonte, la mappa del territorio da indagare.”

Quanto conta una solida formazione in linguistica storica nel profilo del linguista contemporaneo?

“Personalmente io credo che un buon linguista ‘contemporaneo’, ancorché interessato alla dimensione sincronica di singoli fenomeni linguistici, non possa ignorare ciò che motiva, ciò che sta dietro (e ciò che spiega) la loro facies in sincronia.”

Può dirci qualcosa dei suoi rapporti con i due Atenei che organizzano l’evento: la Federico II e L'Orientale?

“Ho sempre avuto ottimi rapporti sia con i colleghi della Federico II che con quelli dell’Orientale. E poi, per me, arrivare a Napoli è sempre motivo di grande gioia: mi piace la città; i monumenti di Napoli – nelle loro stratificazioni dall’antichità più remota all’oggi – mi danno sempre forti emozioni. E poi, la luce, il mare, il calore della gente, la nobiltà dell’italiano sorvegliato in bocca partenopea… Insomma: amo molto Napoli, la sento come tassello imprescindibile dell’identità nazionale. Detesto – è chiaro – colpevoli chiusure, ottusità, grettezze dei leghisti padani e, con Roberto Benigni che ha incantato qualche giorno fa San Remo con la sua intelligente, divertente e insieme partecipata ed emozionante lettura dell’inno nazionale, mi sento un ‘fratello d’Italia’, fratello di tutti coloro che nel nostro Paese pensano davvero al bene comune. Senza retorica, con spirito solidale per ridare all’Italia la dignità che ha in anni recenti tragicamente perduta.”

Lei si è occupato a lungo di lingue orientali, oltre che di lingue balcaniche e di lingue antiche, ponendo particolare attenzione sulle dinamiche del cinese. Il boom economico che vive oggi la Cina mostra riflessi di apertura alle logiche occidentali o addirittura contaminazioni nella lingua?

“Il mondo cinese si sta notoriamente sempre più ‘aprendo’ all’Occidente. Ma è un’apertura forse più apparente che reale. Di fatto negli strati sociali più avveduti dell’ambiente cinese cresce anzi una sempre maggiore consapevolezza dei ‘caratteri originali’ della loro cultura e della loro tradizione. Dal punto di vista linguistico, comunque, è da segnalare un’enorme proliferazione di neologismi cinesi: si tratta di termini relativi a settori dei lessici specialistici, formati prevalentemente mediante la tecnica del calco linguistico avente per matrice parole (soprattutto) inglesi. E però, a differenza di ciò che avviene in Giappone ove gli anglismi sono ‘accolti’ e ‘acclimatati’ entro il quadro fonologico del giapponese (e resi grafematicamente mediante il sistema katakana, quello utilizzato per la… ‘spazzatura’ della lingua: ideofoni, onomatopee, ecc.), in Cina ciò che viene ‘da fuori’ vine metabolizzato e reso ‘cinese’. Irriconoscibile, all’apparenza, nell’essere qualcosa di ‘alieno’.”

Il Web Magazine dell'Orientale ha già avuto il piacere di intervistarla in occasione dell'ultimo Convegno annuale della SIG. All'epoca ci disse che stava leggendo il recente studio sulla sintassi latina di Philip Baldi e Pierluigi Cuzzolin, di cui ha anche pubblicato una recensione. Cosa rende il latino una lingua intramontabile?

“Che dire? Come può un linguista interessato alle lingue d’Europa o, più in generale, alle lingue indo-europee, fare ricerca senza avere una conoscenza approfondita delle due grandi lingue classiche della nostra Europa? Il latino – insieme al greco evidentemente – rappresenta un elemento essenziale della filigrana di tutte le culture europee e, insieme, è termine di paragone imprescindibile per chi si occupa di ricostruzione di fasi diverse dello spazio linguistico indo-europeo. E poi, il piacere di leggere direttamente Catullo, Orazio, Virgilio, Seneca, Tacito…”
 

Valentina Russo

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