Intervista a Marco Ponticiello
Intervista a Marco Ponticiello
Marco Ponticiello, laurea all'Orientale in Lingue e civiltà orientali
Marco Ponticiello, lei si è laureato nel 2004 in Lingue e civiltà orientali. Ci descrive il suo percorso universitario? Le lingue che ha studiato e le discipline che l'hanno maggiormente interessata.
“Devo dire che il mio percorso universitario è stato poco lineare. Prima dell'iscrizione non avevo una grande conoscenza delle culture e delle civiltà dell'Oriente, della ricchezza e della varietà e delle differenze profonde che esistono tra esse. Ho cominciato studiando cinese e tibetano per poi approdare alle lingue dell'India antica (sanscrito) e moderna (tamil) e a un interesse più definito e organico riguardo l'area del sub-continente indiano e la sua tradizione religiosa e filosofica. Ma l'altra mia grande passione era la filosofia e infatti a metà del mio corso di studi mi ero trasferito a Filosofia per poi ritornare, infine, a Lingue e Civiltà Orientali e conseguire la laurea.
Accanto alle discipline propriamente religiose e filosofiche, là dove in India il più delle volte questi due concetti sono indissolubilmente legati, ho avuto la fortuna di poter comporre il mio piano di studi molto liberamente integrandolo con esami di inglese e tedesco e alcuni esami di Antropologia e Storia delle religioni che hanno costituito un momento di sintesi tra i vari altri insegnamenti, facendo in modo che questi non restassero troppo settoriali o fini a sé stessi.”
Come mai si è iscritto all’Orientale? Ricerca di esperienze esotiche, o desiderio di accostarti ad altre verità, differenti da quelle del nostro Occidente?
“Come ho detto, non sapevo molto delle culture o delle civiltà orientali. La mia era più che altro un'attrazione a pelle, il desiderio di confrontarmi con altre visioni del mondo. Credo che molto lo devo anche agli studi di filosofia fatti al Liceo su Schopenhauer e Nietzsche, anch’essi esploratori dell'Oriente, e che mi avevano molto entusiasmato.”
Si potrebbe insomma parlare di lei come di un “viaggiatore alla ricerca di…”, un “pellegrino dell’Assoluto”...
“Assolutamente! Gli anni dell'Università sono stati anni in cui cercavo nei miei studi spunti di riflessione e di critica, strumenti per interpretare la mia vita che in quegli anni era molto assoluta, rivolta all'essenza, al senso ultimo e profondo delle cose. Essere, divenire... Credo che sia un grande privilegio poter utilizzare i propri studi e gli anni da studente per cercare qualcosa che poi influenza i tuoi valori, il tuo sguardo sulla vita e sono contento di averlo potuto fare.”
Come sapeva dell’esistenza dell’Orientale? In effetti, era il luogo più adatto per soddisfare gli stimoli che lei avvertiva e le sue esigenze culturali.
“Non ricordo bene come venni a conoscenza dell'esistenza dell'Orientale, voglio dire in quale momento preciso ne venni a conoscenza. È ovvio che vagliando le opportunità presenti sul territorio mi ero imbattuto, per così dire, nell'Istituto Universitario Orientale (come si chiamava allora) e alla fine lo scelsi, con tutte le incognite del caso visto che non ne sapevo poi tanto.
Ricordo che al momento di iscrivermi arrivai all'ufficio postale ancora con i bollettini delle tasse d’iscrizione sia di Filosofia che di Lingue e Civiltà Orientali… La mia proverbiale decisione nelle cose!”
Quanto l'ha cambiata la sua vita universitaria all’Orientale? Lo studio delle sapienze orientali l'ha avvicinata ancor di più all’Oriente o l'ha ricondotta in Occidente, alla cultura europea nei suoi aspetti positivi o negativi?
“Come dicevo appunto, anche se la mia esperienza universitaria non ha cambiato materialmente la mia vita in ambito lavorativo, ha costituito un momento di ricerca molto profondo.
Ricordo che ero molto insofferente alla settorialità tipica degli studi di orientalistica che facevo. Non trovavo un riscontro con la mia vita e col mio universo culturale, ma era un problema di impostazione. Mi ritrovavo spesso a preparare esami in cui analizzavo le teorie e le controteorie di studiosi preoccupati di far valere la propria interpretazione o versione di un testo molto più che di inserirlo in una prospettiva comparatistica o per lo meno globale, e questo è anche normale negli studi di orientalistica.
Così, un po' per caso, un po' spinto da questa insofferenza e grazie soprattutto all'incontro con alcuni professori, tra cui il professore De Sio Lazzari di Storia delle Religioni con il quale poi mi sono laureato, ho pian piano definito una mia strada, la mia ricerca. Le discipline che studiavo mi servivano per osservare e capire meglio il mio universo culturale e trovare al suo interno strumenti e strategie di verità e salvezza in un'ottica comparatistica.
In questo senso posso dire che andando verso Oriente sono ritornato verso Occidente. L'osservazione del massimamente diverso da me mi ha offerto spunti di riflessione per comprendere meglio me stesso.”
Ha conosciuto colleghi di studio, studenti come lei, che avessero personalità molto spiccate? Ricorda qualcuno, in particolare?
“Sì. Al di là delle frequenza delle lezioni, pure sporadica, non ero uno che frequentasse molto i suoi compagni di studio, salvo ritrovarli fuori dell'Università nelle occasioni più disparate: concerti, feste all'aperto, centri sociali.
Con altri ho studiato insieme per preparare alcuni esami, ma l'affinità era sempre catalizzata intorno ad elementi extra-universitari.
A ripensarci, molte delle persone che ho conosciuto e frequentato, e delle quali poi ho scoperto che facevano i miei stessi studi, erano tutte persone alla ricerca di qualcosa, profondamente implicate, non solo intellettualmente, negli studi intrapresi, vissuti come occasione di scoprire qualcosa su sé stessi o che potesse fornirgli strumenti attivi di interpretazione e cambiamento della propria vita.”
Su quale tema ha fatto la tesi? L'argomento le fu suggerito o fu una scelta personale?
“L'argomento della tesi era Olismo e individualismo nell'opera di Louis Dumont. Sì, è stata una mia scelta personale. L'autore in oggetto è un po' datato ma quanto mai attuale se si accetta la validità d'indagine del metodo comparatistico ed è appunto ciò che mi interessava dimostrare.”
Durante il suo percorso di studi universitari ha compiuto anche altre esperienze significative? Vuole accennarle?
“Ci ho messo molto tempo a laurearmi (non dico quanto) perché durante gli anni di Università ho anche lavorato come light designer per il teatro e per il cinema e ho viaggiato molto. Inoltre, negli anni Novanta, a Napoli e nelle sue Università sono stati attivi parecchi movimenti di occupazione davvero forti e condivisi dalla maggioranza del corpo studentesco, così come in tutta Italia, e la vita universitaria era davvero molto movimentata! Ciascuna di queste esperienze è stata molto importante nella mia vita e nella mia formazione.”
Ha partecipato ai movimenti di contestazione e di occupazione?
“Sì, ho partecipato attivamente ai movimenti universitari di occupazione e alle attività culturali all'interno dei centri sociali, a quel tempo le due realtà erano strettamente interconnesse. Ho occupato e vissuto per circa due anni in quello che allora era lo studentato occupato (oggi TNT), una struttura in via Sedile di Porto ancora oggi occupata e destinata all'opera universitaria, ma mai consegnata.
È stata un'esperienza importante. C'erano studenti, disoccupati, militanti di sinistra reduci dai movimenti degli anni Settanta.
Avevo messo su, con altri ragazzi e ragazze, un laboratorio di sperimentazione e riassemblaggio di materiali riciclati e in genere di risulta. Abbiamo realizzato arredi per negozi di dischi, e gli arredi dello stesso posto dove vivevamo, oltre a organizzare feste di auto-finanziamento con musica e performances ospitando più volte artisti locali e stranieri. È stata un'esperienza indimenticabile, ma non ha avuto un esito costruttivo.”
Ritiene che l'Orientale abbia contribuito a darle un senso di apertura al mondo, alle culture, alla ricchezza della nostra umanità?
“Certamente. Il materiale umano c'è (mi riferisco ai docenti) e anche quello più propriamente scientifico, in termini di strutture, biblioteche eccetera: quantooccorre per aprirti porte sul mondo, nello spazio e nel tempo. Ma più di tutto devi essere tu a volerlo, a metterti in gioco perché possa accadere.”
Ci racconta del suo viaggio in India?
“Credo che quando partiamo alla volta di una destinazione, insieme ai nostri bagagli portiamo con noi un'idea di quel luogo, un'immagine, un'aspettativa. Quando sono partito per l'India avevo un bagaglio da svuotare. Ho studiato per anni la cultura, la religione e la filosofia di questo Paese, la lingua antica, la più antica, la sua società.
Ma è non appena lasci l'aeroporto che comincia ogni viaggio, e in India è vero come in nessun altro luogo.
A Varanasi, nei pochi chilometri che separano l'aeroporto dalla città la valanga assolutamente disordinata ma perfettamente organizzata di persone, animali, auto, rikshaw, moto, carretti che ti travolge e in cui tutti trovano il proprio posto, il momento per passare, sopravvivere, infilarsi e occupare ogni centimetro di spazio disponibile, ti toglie ogni difesa.
La nostra concezione di spazio non ha senso in India. Il confine tra te e lo spazio esterno a cui sei abituato, e quindi anche il tuo modo di definire te stesso, scompare, decade brutalmente.
È stato lì, subito, che ho deciso di svuotare il mio bagaglio. Mi sono lasciato ingoiare da quella massa compatta di suoni, odori, carne, metallo, grida... ed è stato un bene, credo. Mi sono disposto ad accogliere, senza pretendere di capire, almeno non subito, non quella volta.
Ho voluto vedere, semplicemente, senza interpretare o cercare di ricondurre a un'idea.
In un recente viaggio a Cuba ho letto una frase nel libro di Pedro Juan Gutierrez che portavo con me: «La vita è troppo breve per cercare sia di capirla che di viverla...» . Mi è tornata in mente.
Credo che l'India resti incomprensibile a chi vuole arrivare con la pretesa di capire, irriducibile in uno schema lineare... eppure è lì, ti guarda, ti penetra sotto pelle, ti avvolge, ci sei dentro, nel mezzo di ciò che può apparire contraddizione eppure di fatto è, semplice e purissima sintesi degli opposti.
Come potremmo capire la contraddizione essenziale insita nell'esistenza, nella più grande democrazia al mondo, di un sistema sociale basato sulla separazione in caste? Eppure tale contraddizione in India non viene spiegata ma vissuta giorno per giorno. C'è un ordine che sottende tutto questo, un orologio che conta e scandisce misteriosamente e precisamente il funzionamento di questa civiltà millenaria, e io ho voluto coglierlo così, accettarlo, in modo un po' mistico se si vuole vederla così e per questo già indiano.
Ho deciso di guardare essendo parte di questa moltitudine, scomparendo al suo interno, a mia volta guardato.
Ho accettato lo spazio che mi veniva dato, negli autobus, nelle strade, ai chioschi per strada... è come essere in un formicaio. A volte non c'era più un io o un esterno ma un unico respiro. Sono stato indiano. Formica nel formicaio.
Gli indiani mi danno l'idea di uomini antichi, nati con la terra, dalla terra, insieme ad essa. Ho visto bambini dello stesso colore della polvere che calpestavano, con i vestiti laceri e gli occhi che splendevano come gemme incastonate nel letame e le donne, di una bellezza regale, sembrano tutte principesse, nello sguardo e nel portamento.
Ho liberato il mio sguardo per guardare dal di dentro e alla fine ne ho ricevuto in dono un senso di comunione profonda con le persone e le cose importanti della vita, quel profondo sentimento religioso che in India si respira in ogni atto e che io credo di non aver mai smesso di cercare.”
Francesco Messapi
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