Intervista a Stefano Gensini
Intervista a Stefano Gensini
“Tullio ha trasmesso con la parola e l’esempio un insegnamento di Ferdinand de Saussure che ha toccato – fra le altre – anche la mia vita: che, cioè, la questione del linguaggio è troppo importante e pervasiva per rimanere appannaggio dei soli linguisti e della sola accademia”
Professore Gensini, lei è stato di recente a Napoli per una Giornata di studio con Federico Albano Leoni organizzata dalla Federico II e dall'Orientale. Quali sono i punti di contatto tra il suo percorso, filosofo del linguaggio, e quello del professor Albano Leoni, linguista?
“Albano Leoni ha negli ultimi anni esplorato il retroterra cognitivo del linguaggio, con particolare riguardo alla identificazione del significante. Nel quadro di una visione olistica dei processi percettivi, che privilegia unità di tipo superiore (la prosodia, la sillaba) su quella molecolare dei fonemi, Albano Leoni dà una grande importanza al contesto comunicativo come base e punto di riferimento interno sia della comprensione, sia della produzione del linguaggio. Io sono fra quelli che ritengono il contesto (inteso in senso forte come l’insieme delle coordinate semiotiche della situazione comunicativa e del rapporto interpersonale, psicologicamente, socialmente, culturalmente determinato, che vi si attua) la leva profonda del fenomeno linguistico. Che vive e deve essere analizzato dentro uno spazio di comunicazione, perché solo da questo ripete il suo valore. Ad onta delle apparenze, è minoritaria sia in linguistica sia in filosofia del linguaggio la corrente di pensiero disposta a sottoscrivere questo assunto, caro peraltro a Saussure, a Buehler, a Gardiner, alla etnografia della comunicazione. Com’è noto, il generativismo ha espulso il palante reale dalla teoria linguistica (ritenendolo non pertinente ai fini del sistema), e altrettanto fa, sul versante filosofico, la dottrina ‘analitica’ del linguaggio, che riduce il contesto a una variabile esterna della grammatica logica.Condivido pertanto lo sforzo che Albano Leoni ha fatto e fa per rimettere sui piedi, se così si può dire, la teoria del linguaggio.”
Un elemento di vicinanza ed uno di divergenza tra lei e il professore Albano Leoni: concezioni, approcci, metodi, prospettive.
“Un elemento profondo di vicinanza l’ho già enunciato. In riferimento a un suo bel libro recente (Dei suoni e dei sensi, Il Mulino, 2009) ho in altra sede manifestato un dissenso rispetto alla critica che Albano Leoni fa della nozione di ‘tratto pertinente’. Inteso a una critica radicale del concetto di fonema, l’autore sembra negare l’utilità stessa della nozione di ‘tratto pertinente’, il che mi pare errato dal punto di vista di una largamente condivisibile teoria della conoscenza. Posto che il percorso cognitivo umano sia caratterizzato dalla indeterminatezza, ovvero dalla solo parziale calcolabilità e prevedibilità dei processi di identificazione, resta che ogni volta che conosciamo qualcosa come quel qualcosa, differenziandolo pertanto da altre cose, istituiamo reti di tratti pertinenti. Essi vanno riconosciuti nella loro complessità, variabilità, contestualità: non negati.”
Quale aspetto della ricerca di Federico Albano Leoni viene messo in evidenza con il suo contributo?
“Ho parlato di un autore pochissimo noto a linguisti e filosofi del linguaggio: l’anatomista e chirurgo Girolamo Fabrici d’Acquapendente, che agli inizi del seicento pubblicò un terzetto di opere eccezionalmente importanti: il De larynge (1600), il De locutione (1601), il De brutorum loquela (1603). In questi lavori Fabrici ci appare sia un precursore della ricerca fonetica sia un pioniere degli studi zoosemiotici. Più in generale, Fabrici ci fa capire come la ricerca linguistica vera non nasca su un terreno illusoriamente ‘autonomo’, ma all’intersezione con campi interdisciplinari diversi: la medicina, la filosofia, ecc. Proprio questo aspetto mi ha fatto individuare nel grande anatomista, professore all’università di Padova, un interlocutore a distanza di certi temi del nostro Federico.”
Un consiglio del suo maestro (o dei suoi maestri) del quale non avrebbe potuto fare a meno e che ha seguito.
“Il mio maestro, pur nella differenza di età, è lo stesso di Albano Leoni, vale a dire Tullio De Mauro. A entrambi, come a tanti altri suoi alunni, Tullio ha trasmesso con la parola e l’esempio un insegnamento di Ferdinand de Saussure che ha toccato – fra le altre – anche la mia vita: che, cioè, la questione del linguaggio è troppo importante e pervasiva per rimanere appannaggio dei soli linguisti e della sola accademia. Essa innerva tutti i campi, i rapporti personali, la scuola, la vita civile e politica, e così via. Non si può rispetto al linguaggio avere un atteggiamento di ‘puri specialisti’. Mi pare un consiglio notevole, che nel mio piccolo ho cercato di seguire.”
E il consiglio che non ha seguito?
“C’è più di un consiglio che non ho ‘ancora’ seguito. Ma siccome è bello pensare di avere davanti ancora cento anni per vivere e cercare, spero di fare in tempo a mettermi in pari.”
Quale consiglio darebbe ad un giovane interessato agli studi linguistici in un momento in cui le scienze umane faticano a veder riconosciuto il ruolo che spetta loro nella formazione dell'individuo così come nella sua spendibilità nel mondo del lavoro?
“Di valorizzare le moltissime potenzialità applicative che il tema-linguaggio ha nella nostra società. Faccio un paio di esempi: la comunicazione multimediale è fatta spesso malissimo, senza controllo della reale fruibilità e funzionalità dei siti e dei servizi (un buon esempio – in negativo – è la pubblica amministrazione di molti comuni). Cè qui uno spazio per competenze, metodi di verifica, ideazione di flussi comunicativi più efficienti e interessanti. Auguriamoci che il reclutamento in queste aree sia fatto in modo più responsabile di quanto si vede in giro. E auguriamoci che i corsi di comunicazione concentrino di più la loro attenzione su aspetti del genere, anziché su temi di facile impatto spettacolare che lasciano il tempo che trovano. Un secondo esempio è il territorio affascinante e destinato a sicuri sviluppi della interculturalità. Il ministero della pubblica istruzione pre-Gelmini aveva fatto molto in questa direzione che credo possa sortire buoni risultati anche in termini occupazionali. Segnalo che l’Orientale è stata fra i primi atenei d’Italia a impegnarsi sul tema in questione, profondamente vicino alla sua storia e alla sua ratio istituzionale.”
Pensa che oggi sia ancora possibile aspirare ad essere un filosofo del linguaggo completo, ossia arrivare ad una visione d'insieme senza perdere di vista la profondità dei singoli fenomeni?
“Assolutamente sì. Se ne avessi la forza e le capacità mi piacerebbe scrivere una introduzione alla filosofia del linguaggio dove trovassero posto i grandi classici e le scoperte delle neuroscienze, i temi trasversali e tradizionali della disciplina (pensiero e linguaggio, l’interpretazione, linguaggio e verità, e così via) e le nuove frontiere della ricerca, e infine si desse un quadro pluralista e non provinciale delle grandi scuole del giorno d’oggi: la tradizione continentale e quella analitica, la psicologia del linguaggio e l’approccio semiologico. Avremmo bisogno di un quadro formativo unitario in cui collocare i diversi specialismi e le possibili esperenze di ricerca. Ma non c’è un clima favorevole per approcci tolleranti e interattivi come quello cui mi piacerebbe contribuire.”
Gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni hanno condizionato gli studi linguistici consentendo l'esplorazione di nuovi settori grazie a nuove e sempre più sofisticate strumentazioni, ampliando i confini della ricerca e della diffusione del sapere. D'altro canto, l'ampliarsi dei confini di studio è andato di pari passo con una sempre maggiore specializzazione e concentrazione dell'indagine su fenomeni linguistici puntuali e circoscritti. Cosa deve fare un giovane linguista per non rischiare di restare ancorato al dato particolare?
“Credo di avere risposto al punto precedente. Sono infastidito dai libri di filosofia del linguaggio che – facendo torto a Frege – cominciano con Frege e esauriscono il loro oggetto nella tradizione che a lui di solito si richiama. Come mi colpiscono i libri che fanno filosofia del linguaggio su dati linguistici di laboratorio o inventati, senza confrontarsi col ‘terreno scabroso’, come amava dire Wittgenstein, della comunicazione in atto.”
Quali sono gli autori che consiglierebbe di leggere a un giovane che oggi si avvicini allo studio delle lingue e dei linguaggi?
“Metodologicamente la lettura analitica e il confronto col reticolo terminologico-concettuale di Saussure (Corso di linguistica generale) continua a sembrarmi la migliore lettura di avviamento. Non perché in quel libro ci siano tutte le risposte ai nostri problemi: ma perché esso ci insegna una forma mentis di tipo sistemico che è essenziale per lo studio del linguaggio; e forse non solo di esso. Un’altra lettura o rilettura che proporrei a tutti è la Retorica di Aristotele. Chi voglia capire come funziona la comunicazione e il consenso (almeno nelle società occidentali) può tranquillamente partire di lì. Segnalo che un autore molto à-la-page e decisamente simpatico (oltre che bravo), George Lakoff, divenuto noto anche per i suoi studi sulla comunicazione politica (si veda il famoso Non pensare all’elefante) si muove, senza molto dirlo e forse saperlo, su un chiaro terreno aristotelico.”
Può dirci qualcosa dei suoi rapporti con i due Atenei che hanno organizzato l’evento: la Federico II e L'Orientale?
“La Federico II è stata – nei miei anni salerno-napoletani (1994-2006) – un frequente punto di riferimento, e un accogliente contesto per incontri con tanti egregi colleghi e per occasioni di studio per me importantissimi. In particolare nel Centro di studi vichiani ho trovato stimoli intellettuali e di ricerca permanenti, e anche momenti di confronto pubblico che ricordo con molto piacere. L’Orientale, beh, l’Orientale è stata – lo dico senza retorica – il grande amore (in tema di Atenei, s’intende) della mia vita. Mi ci sono spremuto come un limone (in compagnia di tanti cari colleghi e amici) nei primi anni della riforma, duri progettualmente e didatticamente, ma anche pieni di speranze e (come poi si è visto) di clamorose illusioni circa la possibilità di rinnovare i corsi di studio, i metodi di insegnamento e così via. All’Orientale ho incontrato studiosi d’ogni sorta, multilingui, vari per provenienza, interessi e temperamento, verso cui ho contratto un debito profondo. Permettetemi di ricordarne uno che non c’è più, e che è stato un amico vero, Mario Agrimi. E ho incontrato (soprattutto al corso di laurea in filosofia) un piccolo popolo di studenti che sono stati interlocutori diretti e appassionati dei tentativi di riforma dell’insegnamento di cui dicevo poco fa. Ragazze e ragazzi di rara generosità, che ancora ogni tanto mi scrivono (qualcuno magari è emigrato e sta in giro per il mondo) e che sono stati per me, al pari dei colleghi, la base del mio radicamento in questo Ateneo. Poi, come succede, la vita ci porta altrove.”
Professore Gensini, i suoi interessi nel corso della sua carriera hanno coperto differenti ambiti di ricerca: dalla semiotica alla storia delle idee linguistiche, dall'italianistica alla filosofia del linguaggio. In che direzione si muovono i suoi studi al momento?
“Ho lavorato negli ultimi anni sulla comunicazione negli animali non umani, un bel tema post-darwiniano che si presta sia a incursioni nella ricerca empirica, sia a approcci filosofici e storico-filosofici. Si potrebbe scrivere una storia della filosofia sub specie brutorum: vedendo cioè in che modo i filosofi hanno parlato di animali per capire soprattutto l’uomo. Un libro a quattro mani con Maria Fusco, Animal loquens (2010) è frutto di queste ricerche. E poi sto cercando di riordinare e completare un libro sulla storia delle idee linguistiche di alcuni grandi intellettuali italiani, focalizzate sull’adagio gramsciano che la ‘questione della lingua’ sia un modo per addentrarsi in ‘altri’ problemi, di natura storico-culturale e storico-sociale.”
Lei ha lavorato in diverse sedi italiane, tra cui Cagliari, Roma, Salerno, Napoli. In particolare all'Orientale è stato Presidente del corso di laurea in Filosofia e comunicazione e in Comunicazione interculturale, partecipando anche alle prime fasi del Dottorato di ricerca in Teoria delle lingue e del linguaggio istituito assieme da linguisti (di più) e filosofi (di meno). Secondo la sua opinione quanto conta la filosofia del linguaggio per la linguistica e quanto la linguistica per la filosofia del linguaggio?
“Dovrebbero collaborare più strettamente di quanto spesso non accada. C’è, come si sa, una linguistica un po’ spocchiosamente ‘descrittiva’ che con falsa modestia proclama di ignorare i problemi ‘troppo grandi’ cari ai filosofi, contentandosi del ‘dato’, esso solo obiettivo e sensato. E c’è una filosofia del linguaggio che conosce solo l’inglese, trae i suoi esempi solo da quella lingua e (lo accennavo sopra) si dichiara disinteressata ai contesti di uso. È chiaro che un giovane che si formi all’ombra di uno o l’altro di questi estremismi non è destinato a innovare alcunché, per quanto gli possa capitare di avere più facili riscontri accademici. Credo pertanto che facemmo bene, con i colleghi Silvestri, Vallini, Pannain, Martone e altri, a immaginare un dottorato volto a integrare i due percorsi formativi e a farli interagire. Qualche buon frutto c’è stato. E vedo con piacere che alcuni giovani studiosi che esportiamo all’estero (visto che in Italia, come si sa, non hanno nulla da fare) sono apprezzati proprio per il carattere aperto, non chiusamente monodisciplinare della loro prospetti.”
Valentina Russo