Luciano Zaami: “Quelli universitari fra gli anni più intensi della mia vita”
Luciano Zaami: “Quelli universitari fra gli anni più intensi della mia vita”
Il ricordo degli anni napoletani. Il viaggio, l'Ungheria, la scrittura. E la scoperta di Chatwin
Luciano Zaami, lei è siciliano e sulla Sicilia ha scritto pagine molto belle. Come mai a suotempo ha scelto, da matricola, l'Orientale? E perché ha privilegiato la lingua cinese come lingua principale di studio?
“La scelta dell’Orientale venne quasi per caso, come spesso succede per le cose più belle. Alla fine delle scuole superiori non avevo ben chiaro che cosa fare. Ho sempre amato l’Archeologia, ma non avendo studiato greco e latino credevo che non avrei mai potuto accedere a quegli studi. Poi, per caso, mi trovai fra le mani una guida all’orientamento per le Facoltà, e vidi che all’Orientale di Napoli (ai tempi si chiamava ancora Istituto Universitario Orientale) era possibile seguire corsi di archeologia legati a diversi Paesi non europei. Così scelsi la Cina, anche in previsione del famoso boom economico che da lì a qualche anno avrebbe avuto quella nazione.”
Vuole descrivere il suo percorso universitario? Le esperienze di palazzo Corigliano? I corsi che ha seguito? I docenti che ricorda?
“Di certo i miei anni universitari sono stati fra i più belli e intensi della mia vita. Da siciliano, mi trovavo a vivere per la prima volta in 'continente', e questo rappresentava già di per sé un grande cambiamento. Inoltre, ogni giorno venivo a contatto con la cultura cinese e in generale dell’Asia, una continua tempesta di informazioni, idee e concetti da abbattere e ricostruire in poco tempo. Credo che questa esperienza abbia aperto le porte a un nuovo stato mentale, di maggiore apertura, un modo di affrontare la vita e di vedere il mondo che ancor oggi mi accompagna. Dell’Orientale amavo quella continua atmosfera di arena in cui mi venivo a trovare con i miei colleghi. Sia in Facoltà che fuori parlavamo dei nostri studi: ricordo pranzi o cene interminabili a discutere di storia o filosofia, passeggiate per i decumani a chiacchierare di grammatica cinese o di taoismo, una palestra unica, che solo l’Università e il desiderio d’imparare possono donarci.
Ricordo bene anche tutti i docenti. Molti mi hanno trasmesso un sapere inestimabile, ma soprattutto amo ricordare la loro umanità e la capacità di scendere a tu per tu con gli studenti, come un vero maestro dovrebbe fare.”
Si è laureato nel 2006 in Lingue e civiltà orientali, con una tesi sull’espansione dell’Impero mongolo di Gengis Khan. Da che cosa deriva questo suo interesse per una realtà statale… mobile, legata al movimento continuo dell’esercito del conquistatore? È stata definita «un'impostazione politico-militare basata sulla mobilità»…
“C’è un detto mongolo che amo ripetere spesso: «Andremo da Dio, lo saluteremo, e se si dimostra ospitale resteremo con lui. Altrimenti monteremo a cavallo e verremo via».
Dei nomadi amo questo, la leggerezza. In essi ho trovato quell’ancora di salvezza che le culture stanziali non riuscivano a darmi. Tutta la storia sembra essere solo una lotta continua per accaparrarsi beni materiali, mentre i nomadi, con la loro essenzialità, sono un modello che ho subito amato e compreso. Poche cose al loro seguito, e un disprezzo per tutto ciò che risulta essere superfluo.
Certo, poi ci sono le gesta epiche di Gengis Khan e dei suoi figli e generali, un piccolo esercito di nomadi a cavallo che grazie alle loro strategie e al loro ingegno misero in ginocchio le più grandi società della storia e crearono il più vasto impero mai esistito. Non male per un gruppo di così detti 'barbari'.”
Naturalmente lei conosce Bruce Chatwin, lo scrittore-teorico dell’alternativa nomade. Ha trovato qualche spunto, qualche stimolo, nella sua opera? Le vie dei canti è un grande libro.
“Le Vie dei Canti fu proprio il libro che mi fece conoscere Chatwin. Me lo consigliò un professore dell’Orientale per un esame, e quindi la colpa delle mie decisioni è anche sua.
Leggere Chatwin fu come avere fra le mani un libro che contenesse già i miei pensieri, come se finalmente qualcuno avesse messo nero su bianco quella forma d’irrequietezza che da sempre mi porto dentro.
L’alternativa nomade potrebbe essere intesa come una visione opposta al modello stanziale che ci vuole legati al concetto di casa e di lavoro per ottenerla. Quando si è costretti a vivere in viaggio, ci si abitua a spostarsi con il minimo necessario, e si capisce che tutto ciò che ti serve sta solo nella tua testa. Io lo trovo molto formativo, perché gli oggetti sono ormai diventati un prolungamento della nostra anima e del nostro corpo, mentre la loro assenza ci fa riscoprire noi stessi, e il dover far conto solo sulle proprie forze e sulle proprie percezioni ci rivela inattesi aspetti di noi. Non siamo più abituati a restar soli con noi stessi: togliete a un uomo la tv, il telefono e, se volete, anche la corrente elettrica per qualche ora e si sentirà perso, come se non ci fosse altro da fare a questo mondo che usare un elettrodomestico.”
Dove ha condotto le sue ricerche per la tesi? Soltanto in Italia?
“I miei studi mi hanno portato in Ungheria. La prima volta ci andai con il progetto Erasmus, con una borsa di studio in Archeologia dell’Asia Centrale. Poi tornai altre tre volte per imparare il mongolo classico e moderno, e per scrivere la mia tesi di laurea. Infine mi trasferii lì nel 2006, per insegnare all’Università ELTE di Budapest: mi fu offerta, infatti, una cattedra in Cultura dei Popoli Nomadi e Storia dei Cambiamenti Climatici nella Mongolia di Gengis Khan. In pratica era un insegnamento cucito addosso alle mie capacità ed ai miei studi, davvero un onore!
L’Ungheria per me è stata una tappa fondamentale. Vivevo in una città meravigliosa che amo tantissimo, ma soprattutto gli ungheresi, essendo un popolo di origine nomade, rappresentavano un mito vivente. Ogni aspetto della loro storia è legato al nomadismo, quindi per uno studioso come me non poteva che essere il luogo più adatto per le sue ricerche.”
Come valuta, in modo particolare, la sua esperienza nel nostro Ateneo? Quali le principali differenze tra l’Università italiana e quella ungherese?
“La mia vita universitaria è stata molto intensa. Partecipavo in maniera attiva alla vita culturale e sociale dell’Orientale, e nel mio piccolo ho cercato di dare un mio contributo. Mi spiace solo che la nostra Facoltà risenta di una serie di problemi legati alla logistica e all’organizzazione che spesso rendono un inferno le giornate degli studenti. Dell’Università ungherese non posso dire molto, l’ho sempre vissuta da outsider e per brevi periodi, ma la cosa che mi ha sempre stupito era che tutti i miei colleghi fossero capaci di parlare e leggere il mongolo (e qualsiasi altra lingua) in maniera fluente, forse perché lì le lingue le insegnano dal primo giorno con un madrelingua e con libri non in ungherese. Quindi, in un modo o nell’altro sei costretto a impararla.”
Ha conservato rapporti con docenti e laureati dell'Orientale?
“In maniera diretta con pochi docenti, mentre con i miei ex colleghi il rapporto è sempre attivo. Spesso ci vediamo in giro per l’Italia o l’Europa, e ogni volta è come se non ci fossimo mai separati, si parla allegramente e con la stessa intensità di un tempo. Del resto l’Orientale ci ha aiutato a diventare persone aperte e sempre con una buona storia da raccontare per le mani.”
Ha partecipato, durante la sua esperienza universitaria, a qualche iniziativa collettiva?
“Come ho già detto, ho partecipato in maniera concreta alla vita sociale dell’Orientale. Facevo parte dell’Associazione Studentesca Pangea, una realtà molto attiva fino a qualche anno fa. Organizzavamo corsi di italiano per studenti stranieri e immigrati, festival di musica etnica, workshop, corsi di cooperazione internazionale, insomma un vero laboratorio di idee nel cuore di Palazzo Corigliano. Poi organizzai, insieme al Dipartimento di Studi sull’Europa Orientale, una mostra fotografica sull’est Europa da titolo Sguardi ad Est, un vero successo. Riuscii anche a farla esporre al Museo di Arte Moderna di Budapest.
Ma sicuramente l’esperienza di cui vado più orgoglioso è stata quella di aver fondato, insieme ad alcuni alunni ed ex alunni dell’Orientale, la casa editrice Orientexpress, una realtà ancora viva ed attiva nel nostro Ateneo, e che ogni anno dà voce a nuovi autori ed ai loro testi straordinari.”
Ha pubblicato qualcosa, finora?
“La passione per la scrittura l’ho avuta sin da adolescente, e non è ancora andata via. Di concreto ho pubblicato nel 2006 una raccolta di poesie dal titolo D’Amore & d’Altro, mentre a breve uscirà un libro sul concetto del viaggio e sulla continua ricerca di un luogo chiamato casa. Il titolo sarà Derive e Approdi, e verrà edito, come il precedente, dalla nostra Orientexpress.”
Qual è esattamente il suo lavoro, adesso?
“Dopo aver lavorato fino al 2009 a Budapest, sono tornato in Sicilia per un anno, poi a Roma, e ora, da qualche settimana, ho trovato lavoro a Milano. Mi occupo sempre di formazione: lavoro infatti come Project Manager per un’azienda che realizza Master post universitari. Diciamo che posso unire le mie capacità organizzative con la mia passione per l’insegnamento. Ma come sempre non so dove mi porterà questo nuovo percorso della mia vita.”
Se fosse possibile, andrebbe a lavorare all’estero o preferirebbe restare sempre in Italia, con o senza lavoro?
“Ho imparato a non farmi domande e a non progettare il mio futuro, almeno io seguo questo metodo. Mi faccio trasportare dalla corrente del fiume e mi diverto a osservarmi in posti nuovi e in situazioni sempre diverse. Mi piace dire, fra me e me: «Ma guarda, chi lo avrebbe mai detto che saresti finito qui a fare questo?».
Se avessi avuto un programma, forse non avrei mai lasciato la Sicilia nel 1998. Invece adesso eccomi qui, dopo tredici anni, ancora senza una rotta stabilita ma con tante storie alle mie spalle da poter raccontare.
Del resto, credo che abbiamo sempre la libertà di scelta e di cambiar rotta se qualcosa non dovesse piacerci. Spesso ci nascondiamo dietro a scuse, ma è solo paura di prender il largo. Io, dal canto mio, continuerò a seguire quell’antico detto mongolo che mi ha portato molto lontano: «Andremo da Dio, lo saluteremo, e se si dimostra ospitale resteremo con lui. Altrimenti monteremo a cavallo e verremo via».”
Francesco Messapi
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