Maria Catricalà: Fumettofonia, strategie iconiche, onomatopee? Ecco cosa ne penso!

 

Maria Catricalà: Fumettofonia, strategie iconiche, onomatopee? Ecco cosa ne penso!

La copertina di un libro curato da Maria Catricalà con Gianna Marrone

Abbiamo intervistato la professoressa Catricalà su un tema suggestivo e ancora poco indagato. “Le onomatopee? Più che di rapporto tra nomen e res bisognerebbe parlare di rapporto tra nomen e imago: ciò che conta è l'immagine mentale.”

Professoressa Catricalà, lei ha partecipato di recente alle Giornate di studio “Un ambiente fatto a strisce” organizzate all'Orientale da Alberto Manco. Il suo intervento ha suscitato vivo interesse. Ci sintetizza l'argomento che ha presentato?

“Mi sono occupata di quella che chiamo da qualche anno 'fumettofonia', cioè quella congerie di strategie iconiche e grafico-aurali del fumetto. Il lettore viene abituato ad ascoltare una varietà di voci, rumori, effetti sonori, molto importanti per decodificare il messaggio visivo. Senza quella dimensione iconica, il messaggio visivo ed anche quello verbale dei balloon non potrebbero essere interpretati nella maniera corretta. Ho sempre ritenuto, già nei miei studi precedenti, che la dimensione fonica sia fondamentale per la costruzione di un messaggio così complesso e articolato come quello del fumetto, che si costituisce non solo di parole e di immagini, e che crea un rapporto del tutto particolare tra il visivo e il sonoro, un rapporto molto articolato, poli- o plurimodale.

Ritengo che siano fondamentali i balloon, ovvero le cornici che accompagnano il verbale dando al lettore la percezione di una diversità di voce: la voce che passa attraverso una radio o un medium qualunque viene in genere caratterizzata da un balloon segmentato; laddove la voce viene dal cosiddetto 'mentalese', che corrisponde ad un parlare tra sé e sé, è caratterizzata invece con il tratteggio. C'è dunque una serie di strategie che vincolano, anche attraverso la cornice del balloon, la dimensione acustica alta-bassa.

La seconda dimensione importante di cui ho parlato è quella degli 'idioms', degli idioms tradotti in forma grafica e delle cosiddette metafore visive. Si tratta di un elemento importante perché traduce, attraverso un segno grafico, un elemento disegnato, quella che è un'idea, un sentimento, un'emozione che accompagna il personaggio in una determinata situazione. Esempi sono le stelle che indicano il dolore («vedo le stelle dal dolore») oppure la lampadina che si accende quando si ha un'idea brillante.

Infine, il terzo punto che ritengo fondamentale, e che è molto noto, è quello delle onomatopee. Le onomatopee si definiscono tradizionalmente come parole o pseudo-parole che hanno origine per analogia o per isomorfismo col mondo esterno. Alcuni esempi sono 'sussurrare', perché è evocativo di un sussurro, di un soffio; il 'rimbombo' della bomba, appunto, che deriva dal rumore da questa provocato, e così via.

Ma cosa è importante capire dell'onomatopea? Che questa non è soltanto isomorfa rispetto al mondo esterno, perché se così fosse – come diceva giustamente sin dall'inizio del Novecento il grande Ferdinand de Saussure – in tutte le lingue del mondo ci sarebbe una stessa onomatopea per uno stesso suono (pensiamo al citatissimo 'chicchirichì' diverso da lingua a lingua). Invece non è così poiché ciascun sistema linguistico elabora delle proprie onomatopee tenendo conto, lo si è sempre detto, del sistema fonetico di riferimento. Quindi non è tanto importante l'isomorfismo, il coincidere tra il suono esterno referenziale e la costruzione dell'onomatopea – che si baserebbe solo su una specularità – bensì è molto più importante il modo in cui il parlante percepisce il suono e lo rielabora alla luce delle proprie competenze linguistiche. Allora, da una parte è vero che c'è una arbitrarietà, dall'altra però – dal confronto di realtà onomatopeiche di lingue nigero-cordofoniane con altre dell'Estremo Oriente – è emerso che, per quanto diverse, le onomatopee nelle più disparate lingue mantengono comunque alcune caratteristiche identiche, come ad esempio l'iterazione del tipo 'bang-bang', 'tin-tin' e simili. Ci deve essere qualcosa, dunque, che sembra essere comune al di là della realizzazione vocalica, al di là del fatto che una lingua attualizzi un'onomatopea con una 'i', ad esempio, mentre in un'altra si parli di un 'don-don' a proposito di una campana.

Evidentemente c'è un problema di interpretazione di questi fattori di varietà dei sistemi linguistici, ed io ho avanzato l'ipotesi che la realtà dell'onomatopea non sia l'interfaccia col mondo esterno oggettivo-referenziale, bensì con l'image schema, ovvero con la rappresentazione mentale che noi abbiamo di un determinato evento. Il concetto di image schema è stato elaborato negli anni Ottanta in America da Lakoff, da Johnson, ed è poi stato ripreso da Langacker e da una serie di linguisti che si occupano della cosiddetta grammatica cognitiva. Un image schema è un pattern, un modello che viene ad essere sedimentato nella nostra memoria grazie ad un'esperienza motoria, a un'esperienza riguardante la nostra percezione tattile – che è complessa, articolata. Come dicono gli americani, il nostro linguaggio è embodied: in qualche modo incorporato, legato alla nostra dimensione dello spazio. Lo spazio diventa fondamentale.

Questi image schema non sono infiniti: certo gli atti del muoversi nello spazio sono infiniti però ci sono dei modelli che sono quantificabili e descrivibili e che stanno alla base di come noi rappresentiamo la realtà esterna e la traduciamo poi in una dimensione verbale. Questi modelli sono stati studiati e se ne discute ancora, sebbene alcuni di questi image schema siano ormai riconosciuti e condivisi da tutto il mondo scientifico. Abbiamo ad esempio quello del 'percorso', il cosiddetto path, poi il 'contenuto/contenitore' – qualcosa che viene in qualche modo posto dentro un altro oggetto – il 'collegamento', la dimensione 'centro/periferia', l''equilibrio', e una dimensione importantissima come quella del 'sopra/sotto'. Basti pensare al Nord e al Sud: noi ce li immaginiamo sempre come qualcosa che sta sopra e che sta sotto; quando diciamo «vado giù in Sicilia» in realtà non c'è un giù e un su nello spazio ma interviene un nostro modo di rappresentare uno spostamento, un percorso – e ce lo immaginiamo appunto come un sopra e un sotto. Questo fenomeno lo ritroviamo in tantissime tracce verbali.

Attraverso l'ipotesi avanzata, possiamo comprendere perché uno stesso identico suono, una stessa identica onomatopea nei fumetti possa indicare dei fenomeni sonori, delle gestualità e delle situazioni contestuali simili; cioè come sia possibile che l'onomatopea, pur essendo isomorfa rispetto al mondo esterno, possa essere polisemica, avere due o tre significati diversi. Questo lo si spiega attraverso l'idea, appunto, che lo stesso identico suono viene a delineare e a descrivere un image schema diverso, per cui bang può essere inteso come percorso in alcuni casi – cioè il rumore del proiettile che va a urtare, a impattare contro qualcosa – però possiamo anche vedere come questo stesso elemento viene ad essere utilizzato nello stesso identico senso con krack. Quest'ultimo viene ad essere ugualmente considerato non un qualcosa che si rompe bensì qualcosa che esplode, per esempio il fucile, in particolare in alcuni autori di fumetti come Hugo Pratt in cui ci troviamo di fronte ad un krack che indica un percorso. Allora l'elemento enfatizzato dall'elemento fonico è diverso non perché è diversa la realtà esterna bensì perché è diverso il modo in cui noi lo rappresentiamo: la nostra mente si rappresenta dei contesti, delle situazioni, e visualizza l'impatto del proiettile o, in altri casi, il percorso che il proiettile fa per arrivare al goal, all'obiettivo. Ognuno attribuisce alla dimensione sonora caratteristiche diverse. Ciò spiegherebbe tanti aspetti delle onomatopee che, invece, tradizionalmente sono state viste come isomorfe rispetto al mondo esterno. Personalmente ritengo che, piuttosto che di rapporto tra nomen e res, in questo caso bisognerebbe parlare di rapporto tra nomen imago, in quanto ciò che conta è l'immagine che noi abbiamo del res, della cosa.”

A più di dieci anni fa risalgono le sue prime pubblicazioni di ricerche linguistiche sul fumetto (“Come si ascolta il fumetto”; “Come parla il fumetto e la multimedialità”; “Dall'italiano bisbigliato a quello urlato: come si ascolta il fumetto”): come si è avvicinata a questa dimensione della ricerca?

“Per due motivi: innanzitutto perché è una passione che ho sempre avuto come lettrice di fumetti. Divoravo Linus quando ero giovane e nella mia famiglia circolavano fumetti acquistati settimanalmente come Topolino, Tex Willer e Linus; facevo anche dei disegni, mi piaceva riprodurre personaggi di fumetti. L'altro motivo è stato l'incontro personale con un grande linguista italiano, un italianista che si chiama Francesco Sabatini e che, assieme a Raffaele Simone, è stato in parte mio Maestro. Entrambi si sono occupati della varietà dell'italiano parlato, trasmesso e scritto – Giovanni Nencioni, che è stato sempre mio Maestro a Firenze, era quello che faceva la distinzione tra 'parlato parlato', 'parlato recitato' e 'parlato scritto' – e così mi sono accorta, leggendo proprio i fumetti e poi studiando queste loro ricerche, che in effetti quello dei fumetti è un parlato anomalo: è un parlato che sembra autentico, spontaneo, immediato da tanti punti di vista, però dall'altro lato è molto contestualizzato, ed è grazie all'immagine che si può dar conto dei significati, delle inferenze e del rapporto che esso ha con la deissi e con la dimensione spaziale contestuale. E allora lì ho iniziato a pensare che in realtà potremmo immaginare una varietà di italiano a sé stante: l'italiano figurato. Cioè un italiano che, connesso con un'immagine, trova la propria completezza, il proprio valore semantico solo all'interno di un contesto raffigurato, e raffigurato secondo delle strategie di deformazione della realtà. Il fumetto non è realistico, esso in qualche modo trasforma: in una caricatura, in una amplificatio continua o in una miniaturizzazione del mondo; quindi è interessante vedere il rapporto tra il mondo reale e il mondo dell'immaginazione e la loro interazione anche dal punto di vista della verbalizzazione.”

Fumetto, graphic novel, graphic journalism: quali le differenze?

“Beh, il fumetto è una cosa ben precisa, nasce dall'immaginario; il graphic journalism e la graphic novel sono delle strategie che in qualche modo hanno una propria grammatica diversa, perché traducono dati di tipo diverso in un'immagine resa multimodale, complessa, figurativa, visiva, verbale, acustica. C'è, cioè, una volontà didattica, un passaggio di informazioni. Invece il fumetto rappresenta l'immaginario di un autore e di intere generazioni, quindi è elemento che non ha finalità didattiche. Ne è la prova il fatto stesso che il fumetto sia stato lungamente contrastato nell'ambiente scolastico, in cui si è sempre detto che deve essere evitato ai fini formativi. C'è stato un forte pregiudizio proprio perché il fumetto è estraneo – ribadisco – a qualunque tipo di finalità didattica informativa. Non a caso Umberto Eco diceva che se veramente nel mondo reale accadesse tutto ciò che accade in un fumetto – personaggi che volano dal quinto piano e urtano sul pavimento o sui marciapiedi senza sfracellarsi e poi riprendono a correre; macchine che volano, si ribaltano e continuano poi a viaggiare, etc. – chiaramente sarebbe un mondo in cui la fisicità non ha né volume né peso, e quindi un mondo che fa paura e che ha fatto lungamente paura al mondo tradizionale scolastico che crede che la scuola debba portare i giovani soltanto alla concretezza, alla realtà. Invece è chiaro che la scuola deve anche sviluppare l'immaginario: le possibilità che la nostra mente ha di immaginare mondi diversi dal nostro.”

A suo parere tra questi tre “generi” possono essere riscontrate anche differenze di tipo linguistico o semiotico (uso dei balloons e delle didascalie, ideofoni, struttura narrativa)?

“Credo di sì anche se non me ne sono mai occupata personalmente. Credo che ci siano anche in questo tipo di produzione di letteratura dei generi, e che ogni genere abbia sviluppato una propria grammatica – come dicevo – delle proprie tradizioni che vengono ampiamente rispettate. Però non ho dati su cosa caratterizzi Lodoli rispetto agli autori di Topolino. Mi sono invece occupata della differenza tra l'uso di effetti sonori, onomatopee ed altre caratteristiche linguistiche del mondo dei fumetti cosiddetti 'per bambini', come Topolino, versus per esempio Dylan Dog o altri fumetti destinati alla lettura di persone adulte, e mi sono accorta, per esempio, che in Dylan Dognon c'è una dimensione sonora meno marcata che in Topolino, anche se ci si immagina che il mondo dei bambini, come anche lo stesso Baby Talk, sia più marcatamente caratterizzato da effetti sonori e onomatopeici. Questo perché immaginiamo che noi ci rivolgiamo ai bambini proprio attraverso effetti speciali sonori: cambiamo il tono della voce, utilizziamo molto le iterazioni, le affabulazioni, e allora pensiamo che il mondo dei fumetti sia speculare da questo punto di vista; invece risulta che per poter rendere leggibile, comprensibile il mondo dei balloons è necessario accompagnarli con onomatopee ed effetti evocativi della dimensione spaziale-sonora, anche quelli che vengono letti da persone di una certa età.”

La costruzione dell'immaginario del lettore è “guidata” nel fumetto dalle immagini (anche sonore) che fanno da contesto alla scena. In questo senso, rispetto ad un romanzo o racconto scritto “tradizionale”, nella trasposizione da una lingua ad un altra c'è una parte del racconto (una parte fondamentale) che resta immutata. Rispetto all'immediatezza delle immagini, quanto contano le parole nel fumetto?

“Credo che siano fondamentali; non penso che il fumetto potrebbe vivere e avere il successo che ha se non fosse accompagnato dalla parola. Ritengo, anzi, che esso sia in qualche modo una valorizzazione della parola. Non credo che i codici iconico-verbali come i fumetti – ma anche i messaggi pubblicitari o altre strategie di comunicazione – potrebbero danneggiare la funzione e il primato della parola. La parola resta uno strumento fondamentale: le immagini di per sé non sono parlanti, non dicono nulla, sono anzi altamente ambigue ed è solo grazie alla parola che è possibile disambiguare, capire chi fa cosa e perché lo fa. Cioè: la dimensione verbale rimane fondamentale e proprio oggi che siamo bombardati da tanti messaggi visivi abbiamo bisogno di parole, di parole chiare che riflettano tutta la diversità del mondo che ci circonda. Sono convinta che la parola non sia stata minimamente danneggiata dall'utilizzo dei fumetti.”

Ci sono temi che si prestano meglio o peggio al racconto tramite il fumetto? Se sì quali?

“No, questo forse non è vero. Quello che è vero è che ci sia un'azione; è necessario che ci sia uno spostamento, un racconto. Il racconto secondo i narratologi è la storia di un cambiamento: A che diventa B. Se non c'è Pinocchio che diventa un bambino attraverso tutte le sue avventure non c'è racconto, non c'è dimensione narrativa. Allora, certo, la dimensione narrativa può accompagnare lo spostamento nel tempo – che spesso viene reso attraverso strategie grafiche ben precise: una candela intera e poi una consumata per far vedere che la notte è passata oppure il cambiamento della luce del sole sempre con lo stesso obiettivo – ecco questa dimensione narrativa, questo spostamento da un posto all'altro, l'azione, l'incontrarsi, il dialogo restano fondamentali.

Pensiamo, però, a Hugo Pratt e a tanti altri tipi di letteratura di fumetti che hanno sviluppato anche una dimensione psicologica introspettiva – il rapporto col paesaggio, la solitudine del personaggio – in maniera del tutto imprevedibile e che sono stati ampiamente utilizzati. Oppure pensiamo al linguaggio politico, a come la satira politica utilizza quotidianamente il fumetto come contraltare antifrastico a ciò che viene detto magari nell'articolo argomentativo accanto. Quindi è una grande macchina di elaborazione di pensiero e di discorso.

La struttura dialogica certo è fondamentale nel fumetto, però non escluderei alcun argomento, come hanno detto anche due delle colleghe che hanno partecipato al Convegno, Francesca Dovetto e Grazia Basile. Quest'ultima ha presentato un'analisi della rappresentazione della vita di Wittgenstein attraverso il fumetto... chi avrebbe mai immaginato fino a qualche decennio fa di utilizzare il fumetto per raccontare temi come la teoria del gioco di Wittgenstein! Eppure è stato utilizzato perché è uno strumento altamente divulgativo che, grazie alle immagini, rende tutto più fruibile e comprensibile. Certo poi da lì bisogna approfondire per capire veramente chi è che ha scritto il Tractatus logico-philosophicus, però è una buona traccia!”

Ci fa un esempio di comunicazione, a suo parere ben riuscita, attraverso il fumetto?

“Il fumetto viene utilizzato per esempio nella pubblicità. Ricordo che quand'ero giovane alcuni prodotti di generi alimentari, soprattutto per bambini, venivano caratterizzati dal testimonial che era un personaggio dei fumetti. Pensiamo a 'Susanna tutta panna' che ha rappresentato e continua a rappresentare un elemento fondamentale nel nostro immaginario: la bimba buona, tonda che evoca la mamma, che evoca la bontà del latte, della panna, di un sapore primario archetipico della nostra infanzia. Sicuramente è un messaggio molto ben riuscito: intere generazioni se lo portano dietro. C'erano però anche altri personaggi, di altro tipo.

Nell'ambito della comunicazione satirica, poi, si è fatto molto con la caricatura: Forattini è un grande maestro di caricatura e di ricostruzione attraverso l'immagine fumettistica di testimoni della nostra epoca.

Un altro campo in cui credo sia riuscito molto bene il messaggio del fumetto è quello in cui si pone Tex Willer, che dà la possibilità di trasmettere valori molto importanti come il rispetto della società, della regola e della giustizia, il combattere per un ideale o per un bene. Ecco, quello è un personaggio molto positivo. Però, voglio dire, il fumetto è riuscito a trasmettere felicemente anche valori di ironia e di autoironia ad intere generazioni. Si pensi a chi leggeva Linus e si identificava nei fallimenti di Charlie Brown, nelle inquietudini di Snoopy, e ha vissuto poi benissimo, ha affrontato la vita anche col sorriso sulle labbra proprio grazie allo straordinario messaggio di Schulz: quale messaggio è stato così potente e formativo nella storia di noi che siamo nati negli anni Cinquanta e Sessanta rispetto alla generazione precedente?! Quale è stato più potente?! Loro erano cresciuti col libro Cuore, quindi con messaggi di valori e di principi come l'amicizia e la solidarietà; noi invece a questo abbiamo aggiunto anche una sorta di sorriso, di capacità di prenderci un po' in giro, di sorridere delle nostre mancanze e anche delle nostre cattiverie: Lucy è un po' cattiva o comunque sempre un po' aggressiva; Piperita Patty è un personaggio straordinario perché risponde ai test in base al fatto che ci sia l'alternanza a-b-b-b-c, e tutte le nostre insicurezze scolastiche sono state identificate con questa sua capacità di ridere, di prendersi in giro, di affrontare la scuola in maniera tranquilla nonostante le ansie. Ecco, penso che questo sia un processo comunicativo ma non solo, un processo anche formativo molto importante. Sono convinta che chi ha letto questi testi ha affrontato la vita meglio di chi non ha avuto la possibilità di guardare uno scorcio di vita attraverso questa particolare prospettiva.”

Come è cambiata, a suo parere, la percezione del fumetto negli ultimi cinquant'anni? Quali sono secondo lei le motivazioni della minore (o tardiva) attenzione rivolta a questo genere nell'àmbito degli studi letterari e accademici in particolare?

“È una battaglia che è cominciata sin da quando Yellow Kid apparve sulle prime pagine delle riviste newyorchesi, perché da subito la scuola censurò il fumetto pensando che questa commistione iconico-grafica potesse in qualche modo rappresentare un modello di scrittura per i bambini, e che quindi andasse ad intaccare il modello della lingua scritta. La lingua scritta ha delle regole diverse da quelle del parlato; in italiano la cosa è legata soprattutto alle forme sintattiche tipiche del parlato che non vengono ritenute idonee alla scrittura. Però le cose sono cambiate, intanto grazie ai semiologi e ai linguisti che si sono avvicinati a questo tipo di testo senza il pregiudizio normativo, prescrittivo – in quanto la lingua e la scuola non devono prescrivere ma devono dar conto di ciò che accade nei processi comunicativi – e poi perché tutti coloro i quali si sono occupati di processi di comprensione, di che cos'è la lettura, di quanti tipi di lettura abbiamo e hanno mirato a smontare quel pregiudizio di grammatica normativa cercando di avvicinarsi all'idea di una grammatica descrittiva, esplicativa dei processi della mente, hanno lavorato e sedimentato una nuova visione del fumetto, una visione positiva. Penso ai primi saggi di Umberto Eco, che stilò i primi dizionari di onomatopee negli anni Cinquanta e Sessanta, e grazie a questi interventi, a queste illuminanti idee di alcuni, anche nella scuola un po' alla volta i professori hanno recepito il messaggio e hanno compreso che laddove i ragazzi dell'Ottocento lavoravano sui testi illustrati di Pinocchio si poteva immaginare che nella nostra epoca i bambini potessero formarsi sui fumetti, soprattutto Paperino. E poi, andando a studiare attentamente la lingua di questi testi, si è scoperto che Paperino e Topolino parlano un italiano piuttosto colto, fatto anche di neologismi, come 'Paperopoli' e altri, coniati su tradizione greco-latina. Quindi ci si è accorti che non era per niente popolare l'italiano dei fumetti: il fatto che sia di facile lettura non vuol dire che sia popolare, che sia una varietà di italiano dei semi-colti. Anzi, bisogna essere piuttosto colti per comprendere che cosa vuol dire «me tapino!».”

Qual è il lettore ideale di fumetti?

“Non credo che ci sia. Il lector in fabula di Eco che immagina un processo comunicativo standardizzato, l'autore ideale così come il lettore ideale credo non ci siano. Credo che il lettore ideale sia quello che cerca di comprendere, che si pone con molta attenzione, curiosità e interesse, ma questo di fronte a qualunque tipo di testo, anche di fronte al bilancio dello Stato! Non è necessario che ci sia un'immagine perché ci sia un lettore ideale: la lettura è un processo molto complesso che purtroppo stiamo sempre di più perdendo nelle sue forme tradizionali, e richiede attenzione. Le letture che rendono di più nella vita, che ci portiamo dietro, sono quelle che ci coinvolgono e dalle quali ci facciamo coinvolgere. Il lettore ideale è quello che pone attenzione alla parola, all'immagine, al significato, al senso e anche alle inferenze dei messaggi che riceve.”

Quale ruolo può avere il fumetto nella formazione ed educazione dell'individuo, considerata la sua diffusione in fasce d'età molto giovani?

“Al Convegno dell'Orientale, nella sezione appositamente dedicata agli aspetti linguistici che il fumetto pone, ho sentito una conferenza bellissima di due giovani dottorande – Azzurra Mancini e Valentina Russo –, promesse della linguistica, che hanno spiegato molto bene come anche il rapporto tra uomo e donna viene in qualche modo riconfigurato all'interno del fumetto e può rappresentare – quello famoso tra Diabolik e Eva Kant – un modello comportamentale per la donna e per l'uomo del 2000. Quindi, in qualche modo si trasmettono non solo valori ma anche comportamenti, e non solo quelli espliciti ma anche quelli pragmatici che richiedono delle implicature. Quindi anche in questo Convegno è emerso che sicuramente ci sono vari livelli: da quello linguistico a quello comportamentale a quello ideologico e sociale che vengono ad essere trasmessi attraverso i fumetti, per questo ritengo importante che si leggano vari tipi di fumetto. È chiaro che ognuno di noi poi ha il suo personaggio preferito, quello più amato, però è bene che nella formazione di un bambino o di un giovane non si legga soltanto Topolino, che non si legga soltanto la vicenda di un personaggio, ma che ci sia l'opportunità di leggere diversi tipi di fumetto in modo da comprendere che quello che si vede proiettato e trasfigurato non è l'unico mondo immaginario possibile ma ce ne possono essere tanti.”

Professoressa Catricalà, lei si è occupata dell'italiano sin dalla sua tesi di dottorato, con puntualizzazioni - tra l'altro - sulle grammatiche risalenti ai primi settant'anni dell'Italia unita, ed ha continuato a coltivare il suo interesse diversificandolo negli ambiti dell'insegnamento (come L2 o LS), della lingua della politica e della televisione, e molti altri. A proposito del rapporto dei giovani con la lettura e con la propria lingua – un rapporto all'interno del quale il fumetto, come accennato, può svolgere un ruolo di rilievo – come è cambiato l'insegnamento dell'italiano in Italia a 150 anni dall'Unità, sia in termini di contenuti e riferimenti letterari, sia in termini di metodi?

“C'è stato un cambiamento epocale, soprattutto se si pensa che la grammatica che veniva insegnata nella seconda metà dell'Ottocento era basata sul principio che bisognasse insegnare a leggere a scrivere e a far di conto. Cioè, la scuola post-unitaria è una scuola che deve garantire livelli minimali di alfabetizzazione ad un Paese di analfabeti e di dialettofoni. Quindi una scuola, quella costituita sulla legge di Casati, emanata nel 1859 e fatta poi propria dallo Stato unitario nel '60/'61, che ha una mission ben precisa: dare una lingua ed una competenza minimale di lettura e scrittura a un popolo frammentario e frammentato al proprio interno. Ha una funzione sociale fondamentale, perché i fenomeni di urbanesimo rendono necessario far sì che le persone abbiano un minimo di capacità di leggere le insegne stradali, le istruzioni igieniche, per vivere in una fabbrica, per evitare problemi seri nel mandare i bambini a scuola e così via. Da allora l'Italia è diventata una delle maggiori potenze industriali del mondo, è diventato un Paese altamente industrializzato, colto, ricco, in cui i parlanti hanno un codice comune finalmente. Come diceva Giovanni Nencioni, «siamo scesi negli inferi del parlato» però abbiamo dato vita a una lingua viva e vera, come auspicata da Manzoni, una lingua che funziona veramente da pane quotidiano, come diceva Dante nel Convivio quando immaginava, in quella sua dimensione onirica, che il volgare sarebbe potuto diventare un pane di cui si avranno «le sporte piene», cioè sarà talmente ricco e abbondante che non sapremo più dove metterlo. Ecco, ora che questa lingua è veramente un pane ricco, polisemico, sinonimico che tutti condividiamo, la scuola si serve di mezzi di comunicazione molto vari. Si serve dell'audio-visivo e delle varietà: ormai non c'è grammatica scolastica che non includa la diversità del sistema linguistico a livello diafasico, diastratico, diatopico. Si parla dei dialetti. Quando andavo a scuola io non ho mai ricevuto istruzioni d'uso del dialetto, era una scuola dialettòfoba; invece oggi i bambini vengono addestrati a fare confronti ad esercitarsi anche nella loro identità locale versus l'inglese, magari, o verso la loro realtà di italofoni. C'è stata una trasformazione straordinaria, i modelli di grammatica si sono moltiplicati. A proposito delle prove INVALSI, le istruzioni che accompagnano questi test citano fior di grammatiche nazionali e internazionali: vuol dire che la formazione dei docenti si è molto articolata e arricchita del contributo scientifico.”

Durante l'ultimo Convegno internazionale dell'ASLI, svoltosi a Firenze a dicembre 2010, Claudio Giovanardi e Pietro Trifone hanno presentato l'ultimo rapporto sullo studio dell'italiano all'estero evidenziando non solo la crescita del numero di corsi di lingua e cultura offerti dai centri convenzionati ma anche le motivazioni per le quali gli stranieri si iscrivono ai corsi. In questo senso il risultato emerso più confortante è stato l'interesse alla lingua legato ancora all'immenso patrimonio culturale dell'Italia. Dal momento che lei ha insegnato all'Università per Stranieri di Siena – dove è anche membro del dottorato di ricerca in “Linguistica e Didattica della lingua italiana a stranieri” – e che ha dedicato ampio spazio tra le sue pubblicazioni ai temi concernenti l'apprendimento, l'insegnamento e l'uso dell'italiano L2, vorremmo sapere quali differenze si riscontrano nell'approccio alla nostra lingua da parte di utenti per i quali essa è rispettivamente LS o L2, e quali le differenze nella relativa percezione della nostra cultura – non solo artistica, elevata ma anche quotidiana, popolare.

“La motivazione culturale, nella scelta di studiare l'italiano, è stata preponderante fin dalle prime indagini a tappeto fatte attraverso gli istituti di cultura; c'è una prima indagine di questo tipo risalente agli anni Settanta e Ottanta condotta da Ignazio Baldelli ed Ugo Vignuzzi per l'enciclopedia Treccani. Quello che è emerso successivamente, soprattutto grazie anche al boom economico del Veneto e alla delocalizzazione dei processi produttivi, è che a fianco a questa motivazione puramente culturale si è andato diffondendo in tutto il mondo, soprattutto nell'Estremo Oriente, l'interesse per l'italiano per motivi lavorativi. Molti giovani thailandesi, per esempio, avendo contatti con aziende venete o lombarde che avevano delocalizzato la produzione laggiù, hanno cominciato a studiare l'italiano pur non avendo alcun interesse né per Dante né per la lirica italiana. Quindi c'è una larga fetta di apprendenti che sono interessati ad avere contatti commerciali con l'Italia e a lavorare per il made in Italy. Il made in Italy rappresenta effettivamente in molti Paesi un mito, non solo per i manager ma anche per i piccoli artigiani che hanno la possibilità di mettere al servizio di un grande marchio le loro capacità manuali: le loro piccole mani nell'Estremo Oriente sono state utilizzate per rendere più preziosa la gioielleria, ad esempio, oppure i ricami dei grandi marchi della moda italiana. Per non parlare poi della cucina italiana! Dunque non solo la cultura 'alta', la tradizione letteraria o artistica (si pensi a quanti giapponesi studiano l'italiano per poter comprendere cosa sia il Rinascimento o cosa sia il Barocco, poiché solo guardando le opere, le chiese, le fontane possono capire, e così vengono in Italia e studiano anche la letteratura e tutto il resto).

Detto questo, le motivazioni si sono moltiplicate: accanto alla tradizionale ricerca dei grandi movimenti culturali che si sono poi estesi al resto del mondo, si è creata anche una passione per lo stile italiano. Ciò che è fatto in Italia è riconoscibile per il design, per il gusto, per il colore, per l'alta qualità dell'impresa e dell'industria italiana, della cucina italiana, della Ferrari, che rappresentano un momento e un canale veicolare importantissimo per la diffusione della nostra lingua. Un successo che non ha avuto la canzone italiana, che pur rappresenta un capitolo della cosiddetta cultura popolare: ha sì grande successo tra gli italiani all'estero, di seconda e terza generazione, ma non tra gli stranieri.

Quindi i motivi di diffusione di una lingua sono i più diversificati. A me è capitato di andare ad Oslo e scoprire che i corsi di lingua italiana si erano moltiplicati a dismisura grazie al calcio e alle scommesse clandestine ad esso collegate.

Per quanto riguarda gli stranieri che imparano l'italiano in Italia, c'è da dire che molti hanno motivazioni personali. Ci sono moltissimi stranieri che vengono in Italia, magari per un brevissimo periodo, e poi rimangono a vivere qui perché sono motivati dai rapporti interpersonali, dalle grandi amicizie, dagli amori, e quindi lì la motivazione personale si innesca sulla motivazione puramente strumentale del lavoro o dello studio. E a quel punto la scoperta dell'italiano naturalmente diventa la scoperta di un modo di essere, di un modo di comportarsi, di vivere. Alcuni hanno scoperto, per esempio, la capacità della provincia italiana di creare relazioni e rapporti umani molto più autentici rispetto a quelli prodotti da una cultura diversa dalla nostra.”

Sempre a proposito della sua esperienza professionale, il suo ambito di ricerca le impone un confronto continuo tra l'Italia (e l'italiano) e le realtà estere. Come giudicherebbe il rapporto di scambi tra studenti e studiosi italiani e stranieri?  È vero che c'è un forte squilibrio tra quelli che escono e quelli che entrano nel “bel Paese”, e a cosa è dovuto tale squilibrio?

“Lo squilibrio nel fatto che noi mandiamo diversi giovani all'estero è dovuto al fatto che il sistema universitario italiano in questo momento sta subendo una serie di tagli che, naturalmente, sono dovuti alla crisi economica che sta coinvolgendo tutta l'Europa; anche se in altri Paesi si fanno investimenti più consistenti per il mondo universitario. Il rapporto tra il mondo della ricerca entro i nostri confini e fuori è un tema così vasto e così complesso da non poter essere ridotto a poche battute. Sono convinta, comunque, che questa situazione temporanea di crisi sarà superata, che si tornerà a creare posti di lavoro anche entro i nostri confini e sono convinta che in ogni caso l'Italia riesce a mantenere una propria forza identitaria ed un livello elevato nella ricerca in tutti i campi: rispetto al multilinguismo, alla dimensione storica (unica nel panorama internazionale), così come nell'ambito della medicina, dove sono convinta che il rapporto con la dimensione affettiva ed emozionale delle patologie sia una specificità ed un'esclusività nostra. Però non credo che ci sia un vantaggio o uno svantaggio, qualcuno che prende di più e qualcuno che prende di meno. Pensiamo solamente a quanti cervelli sono andati all'estero e poi ritornando hanno prodotto dei risultati, dei centri di eccellenza anche in Italia. Credo, quindi, che lo scambio tra i diversi Paesi e le diverse comunità di ricerca sia una cosa proficua, sicuramente. L'importante è che i giovani possano scegliere, che chi non vuole andare all'estero, se non per un breve periodo, abbia poi l'opportunità di tornare e di continuare a fare quello che vuole.”

I suoi studi sociolinguistici hanno toccato, come detto, diversi settori della comunicazione – o lingue settoriali se vogliamo – dalla televisione al commercio, dal politichese al femminile alla lingua del socialismo alla buona creanza. Come definirebbe l'attuale panorama linguistico italiano rispetto ai suddetti punti? Esiste ancora una chiara delimitazione tra il linguaggio della tv e quello della politica ad esempio? Tra quello della politica e quello dell'economia? E si può ancora parlare di buona creanza?

“Per quanto riguarda l'identità dei linguaggi cosiddetti settoriali, sono convinta che esista tuttora. È chiaro che i media – giornali, televisione, internet, radio – rappresentino in qualche modo dei canali di grande diffusione e circolazione di termini appartenenti a determinati ambiti settoriali, però questo non vuol dire che il linguaggio della moda o quello degli inventori non abbia una propria grammatica, una propria caratteristica che non è solo lessicale ma ha un imprinting anche sintattico e morfologico. Ciascun àmbito continua ad elaborare innovazioni, neologismi, regole di formazione della parola e di gestione del testo propri. Non è pensabile che la televisione possa raccogliere tutto questo. Certo, come diceva sempre Simone, la televisione è un ottimo specchio della nostra società, però lo specchio non può generare l'innovazione che invece il mondo della tecnica, dell'industria, dell'artigianato e della cultura elaborano. L'innovazione nasce nelle sedi specialistiche, tecniche, settoriali; la televisione non fa che recepirle.

Per quanto riguarda invece il linguaggio politico, attualmente ci si chiede se questo stia mantenendo una sua creatività innovativa o piuttosto non si sia assestato su un uso comune, su una varietà di italiano medio. Credo che il linguaggio politico si sia liberato del politichese e che questa sia stata una grande conquista della nostra epoca. Se si confrontano le trasmissioni di tele-politica coordinate dal grande giornalista Jader Jacobelli – la 'Tribuna politica' degli anni Sessanta e Settanta – si scopre di quanto parlar vacuo era caratterizzato il linguaggio politico. Adesso è difficile che un politico vada in televisione e dica delle cose che non hanno una dimensione spaziale, temporale, che non si basino su dati alla mano, numerici.

È anche vero che il linguaggio politico del '68, del momento rivoluzionario, del cambiamento dei comportamenti giovanili aveva portato con sé molte metafore, arricchendo il livello retorico del linguaggio – pur essendo, quella retorica, una strategia ampiamente utilizzata anche nella tradizione di Giolitti e poi, purtroppo, del triste ventennio fascista. Però effettivamente subito dopo di anni Sessanta questa capacità creativa, soprattutto retorica, si era molto diffusa; soprattutto nelle assemblee era diventata pane quotidiano. Adesso tutto questo si vede diminuire e scomparire. Nella nostra tradizione politica attuale è più difficile trovare esempi come convergenze parallele e compromesso storico, però ci sono elementi di grande innovatività. Credo che la comunicazione politica assieme allo sviluppo di nuove tecnologie porterà sicuramente – e forse sta già portando anche se noi non se siamo totalmente consapevoli – delle grandi innovazioni anche nell'aspetto linguistico: nell'interazione, negli slogan, nei modi di dire che non nasceranno più dall'alto probabilmente ma che saranno sempre più frutto di una collaborazione tra persone che hanno finalità comuni. Si pensi, per esempio, all'uso di Internet nella campagna elettorale di Obama, o al rapporto dei social network con i movimenti popolari, come è accaduto in Nord Africa.”

Ritornando al fumetto, quale ruolo pensa che abbia a possa avere nella mediazione interculturale, anche considerando la sua vasta circolazione?

“Questo è interessantissimo: un campo di grande importanza per le nostre società, perché la letteratura va tradotta e richiede la capacità di traduttori molto bravi, invece il fumetto sia attraverso le immagini e gli stili grafici, sia attraverso gli effetti sonori, è in grado di rendere conto del mondo anche attraverso una traduzione non particolarmente attenta, di raccontarci delle storie completamente diverse in base a culture, a modelli, a percezioni, a paesaggi completamente diversi dal nostro. Quindi credo – anche dalle cose sentite in questo Convegno e dalla partecipazione multiculturale e interculturale constatata – di aver compreso benissimo l'importanza della migliore traducibilità dei fumetti rispetto alla letteratura dei romanzi, e quindi della loro capacità di poter fungere più rapidamente alla nostra necessità di impossessarci di modelli, di saperi, di etno-saperi diversi dai nostri. A questo proposito ritengo importantissima l'iniziativa di Alberto Manco, che ci ha offerto un programma ricco da cui sono emersi risultati altrettanto importanti e che ha valorizzato l'interculturalità e l'interdisciplinarità, cosa non comune ad altri convegni dello stesso genere, e per questo tanto più apprezzabile.”

Qual è il suo fumetto preferito?

“In realtà credo di averlo già detto in qualche modo: Linus, un personaggio che mi ha sempre confortato. Nei momenti di paura e di ansia ho sempre pensato a lui e, ridendo di me stessa, ho avuto la capacità e la forza di andare avanti”.

V. R.

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