Michele Mirabella ospite del XXXVI convegno della Società Italiana di Glottologia
Michele Mirabella ospite del XXXVI convegno della Società Italiana di Glottologia
Il popolare autore invitato al convegno "150 anni. L'identità linguistica italiana", che si svolge a Udine dal 27 al 29 ottobre 2011
Professore Mirabella, lei ha dedicato attenzione, nelle sue trasmissioni, alla questione linguistica, mostrando che intorno a queste cose si può costruire un prodotto televisivo apprezzato, di successo, non di nicchia. L'ha fatto coinvolgendo esperti scelti con attenzione: ricordiamo ad esempio Luca Serianni e Max Pfister. Ora è stato invitato al XXXVI della Società Italiana di Glottologia. In che cosa consisterà il suo contributo?
Si tratterà di un contributo che, per quanto modesto in un contesto come quello della Società Italiana di Glottologia, avrà a che fare con ciò di cui mi occupo: semiotica del linguaggio nei mezzi di comunicazione di massa. È un terreno di analisi che vive dei rimbombi di una tecnologia la cui evoluzione, come ben sappiamo, è incessante e velocissima.
Si parte dunque dalla differenza tra linguaggio e lingua.
Sì. Distinguiamo innanzitutto e chiediamoci in quale “linguaggio” si collochi la lingua italiana. Ha una enorme importanza capire quale sia il terreno sul quale ci muoviamo dal punto di vista linguistico. Naturalmente, lo dico con riferimento all’idioma: una cosa è se ci muoviamo in radio, una cosa se ci muoviamo in televisione. E non parliamo poi di altri contesti: cosa significa muoversi in Internet, e via via in Facebook, in Twitter, nei microblog...
Un ambito di studio molto attuale.
Attualissimo. Ci sono ancora pochi studi su questo. Una ricerca sulla lingua che si usa nei vari comparti mass-mediologici non è stata ancora portata avanti. L’accelerazione continua e straordinaria di questi fenomeni non ha ancora consentito uno studio organico perché le transizioni sono continue. Fare il punto della situazione come è il caso dei valorosi dizionari che escono periodicamente ad aggiornarci sui registri linguistici e a registrare a loro volta le mutazioni e metterle in magazzino: ecco, questa mi sembra una buona soluzione. Io parlerò appunto di questo: di questa difficoltà, di questa necessità, dello stato dell’arte. Stato dell'arte relativo non tanto agli studi sulle lingue e sui linguaggi, quanto piuttosto all’attuale condizione della lingua italiana. Lancerò una sfida affinché si capisca… che è importante capire!
Lei anni fa ha condotto con Luca Serianni un programma sull’italiano.
Sì. Ho inventato quel programma. A quel tempo RAI Educational si occupava di simili cose con doverosa diligenza. Adesso meno. Il titolo era “ABC. L’Ha detto la tivvù”. Il titolo provocatorio indicava la sorta di scanzonata fiducia che si ha nei confronti della televisione come quando si dice “l’ha detto la TV”, come una volta si diceva l’ha detto la radio.
Una fiducia smisurata nella forza autocertificante di queste parole.
Proprio così. Purtroppo una volta la radio era veramente prestigiosa sezione di controllo della lingua ed elargiva “istruzioni per l’uso” attendibili e verificabili. Esisteva un disciplinare autorevolissimo e colto che presiedeva all’uso della lingua in radiofonia. È stato così fino all’ultima propaggine di questa attenzione, che fu vivificata da uno studio indimenticabile di Gadda su come deve essere fatto uno scritto radiofonico. La televisione invece ha molto meno autorevolezza perché è riccamente ignorante, a usare un paradosso. Non fa come la radio che comunque dava dei parametri irrinunciabili.
Un’autorevolezza, quella della TV, utilizzata in maniera talvolta grottesca.
La TV è di fatto una cassa di risonanza che ha un'autorevolezza e soprattutto un’efficacia enorme: ecco quindi che vien fatto di dire “l’ha detto la TV”. Tuttavia, il sillogismo “l’ha detto la TV” ergo “è un registro linguistico corretto” è sbagliato. Quando la televisione “dice” in un certo modo, è sì popolare ma al tempo stesso dovrebbe dire anche “guardate che stiamo scherzando”, ma non lo fa. Anzi, la televisione accredita l’uso linguistico che da essa stessa proviene, e lo fa con manovre arbitrarie. Ovviamente le anime belle mi dicono che sono un illuso, che il controllo non esiste e via di questo passo, ma io non ci credo molto.
In effetti c’è di mezzo una precisa responsabilità linguistica, e dunque culturale, degli operatori della televisione.
Senza ombra di dubbio. Noi abbiamo una grande responsabilità come servizio pubblico. Noi i registri linguistici li dobbiamo conoscere! Non dobbiamo arroccarci, naturalmente, a far la citazione letteraria, ma è inevitabile chiedersi dove debba andare a sbattere un professore di lingua italiana che si trovi a contrastare il galoppo arrogante e pervasivo di solecismi e tutto il resto. Mi si dirà: è tutta arbitrarietà della lingua, un processo inarrestabile. Ma le dico che proprio non mi pare, non sono d’accordo. La lingua, piuttosto, si impoverisce con un consumo esso sì arbitrario e del tutto casuale.
Nemmeno per i bambini c’è proposta adeguata.
Già, non c’è più. D’altro canto non ci sono più nemmeno gli àmbiti ristretti. Ai bambini vengono servite patetiche “lallazioni televisive”. Basta sentire il tono con cui i conduttori, ad esempio, parlano ai bambini: umiliante per questi ultimi. Ma i bambini sanno un sacco di cose.
Cosa pensa degli stranierismi nell’italiano?
Penso che se ne faccia un uso esagerato, peraltro non ricambiato con trattamento analogo nelle altre lingue. Le uniche conosciute sono pizza e culo, e ultimamente bunga bunga, peraltro di rimbalzo perché è importato. Io non voglio essere accusato di sciovinismo, ma se soltanto si insegnasse a amare l’eleganza impeccabile di una buona lingua italiana si farebbe un gran servizio al Paese e alla cultura di questo Paese. Invece è comunissimo il pleonasmo, è comunissima la scorrettezza, il “di questo ne parliamo”… ma insomma, tanto ci vuole a non dirlo? E certo che questa è una forma di analfabetismo. Non mi si può dire che i registri linguistici cambiano,se mi viene detto con riferimento a simili fenomeni: è una stupidaggine.
“Apprescindere”: quale è l’idea che guida questa sua trasmissione?
È molto semplice. È un modo di dire introdotto nell’uso del varietà dal vecchio Totò, che usava spesso questa formula. Gli piacevano i lemmi che contenevano il nesso consonantico “sc” che si ritrova nei vari poscia, coscia, biscia, e, fra i tantissimi altri possibili, lo stesso “a prescindere”. Gli piacevano queste parole “altolocate”: se ne prendeva gioco. Era il burocratese che prelevava dai verbali delle regie questure. “Apprescindere” l’ho inventato perché dovevamo esordire con una trasmissione dedicata ai 150 anni dell’Unità d'Italia, e io dissi, evidentemente citando il grande Totò: “Apprescindere da tutto quello che vogliamo dire o criticare dell’Italia, noi vogliamo bene al nostro Paese”. È nato così, quel titolo.
Quale è un cattivo esempio di televisione?
Tutti i cosiddetti reality show: sono altamente diseducativi. Micidiali per il costume italiano, per il costume di un paese civile.
Un buon esempio, invece?
L’intero palinsesto di Rai Tre, se mi posso permettere.
Lei ha firmato numerose regie teatrali.
Sì. Prosa e lirica. Sono state decine. Di Verdi ho diretto una Traviata. Ora mi avvio invece a dirigere il Rigoletto a Trieste.
Quale è stato il testo a suo avviso meglio tradotto tra quelli che ha potuto mettere in scena?
Ho amato molto il Romeo e Giulietta di Shakespeare, quello di Melchiorri, per intenderci. Impagabile, in tal senso, il magistero di Agostino Lombardo: è stato il mio maestro. Straordinario. Ma voglio anche ricordare che mi sono laureato su Pirandello e il mio relatore è stato Arcangelo Leone De Castris.
A.M.