Moni Ovadia ed il suo "teatro musicale" per i nostri studenti

 

Moni Ovadia ed il suo "teatro musicale" per i nostri studenti

Moni Ovadia durante uno dei suoi spettacoli

Ospite dell'Università di Napoli L'Orientale, Moni Ovadia si è soffermato a lungo sul senso profondo del teatro yiddish

Moni Ovadia, è la prima volta che viene invitato all'Orientale?

"No, all’Orientale sono già stato in passato per altri incontri informali ed è sempre un piacere. Mi trovo sempre bene quando arrivo a Napoli. Questa città è capace di raccontare le difficoltà ma ha anche una sua specificità dimostrando che l’umanità, nel bene e nel male, non è totalmente omologata."

Dalla fine degli anni '70 Lei si è dedicato alla composizione e ad una forma inedita di concerto teatrale. Cos'è il suo "teatro musicale" e da cosa nasce?

"Io vengo dalla musica, sono stato quello che si definirebbe in inglese un folk singer ho fatto un po’ di ricerche sul campo nelle musiche tradizionali dell’alta Italia e poi sono tornato alle mie radici cosmopolite, quelle dell’ebraismo del centro-est Europa. Sono nato in Bulgaria, da una famiglia di ebrei di discendenza ispanica. Il teatro era diciamo una vocazione fortissima, mi attraeva molto ma quello in prosa non lo capivo. Lo rispettavo, vedevo i suoi esiti ma non toccava me finché vedendo alcuni artisti singolari, sia musicisti molto teatrali che alcuni grandi maestri della scena come Thaddeus Cantu, secondo me il più grande creatore del teatro del '900. Con lui, di cui sono grande amico, è iniziata una collaborazione ed ho capito che l’attore inteso come attore di prosa non era l’unico attore possibile sulla scena e, siccome venivo dalla musica, ho pensato di fare dei miei musicisti degli attori, di mettere in scena la musica attraverso la concezione drammaturgica del musicista come interprete di teatro. Tuttavia si trattava di un interprete che recitava Shakespeare o Pirandello non semplicemente parlando ma che agiva bensì sulla scena. Attraverso il suono l’ attore diventa un corpo drammaturgico relazionato col tempo e con l’esistenza. In questo modo l’attore poteva essere teatralmente usato in modo dirompente. Ho costruito questa compagnia di musicisti-attori usando il loro disagio, esiliandoli dalla certezza del leggio obbligandoli a suonare danzando, parlando, agendo, esprimendosi con il loro volto e ne è nata una forma di teatro musicale molto particolare che ha proprio il suo cuore drammaturgico nel musicista-attore. Non è l’attore che suona… quella è un’altra cosa."

Lei è nato in un contesto multiculturale: suo padre di origine greco-turca e sua madre serba. Come ha vissuto questo mix di elementi eterogenei e che conseguenze ha avuto sulla sua formazione personale ed artistica?

"Ha influito moltissimo sulle mie scelte di vita coniugandosi con un’altra radice molto forte. Io sono stato molto legato alla cultura tradizionale popolare del mio paese, a partire da Milano, la città in cui sono cresciuto, fino ad arrivare a tutto il resto del paese, perché ho vissuto in una Milano che conosceva l’immigrazione interna ed i miei amici erano figli di calabresi, campani, pugliesi venuti da piccoli al nord e tutti questi suoni, questi colori sono diventati per me una tavolozza per dipingere la mia idea di teatro. Ho coniugato il mio cosmopolitismo con questa cultura di forti radici tradizionali, popolari quando c’era ancora una cultura di popolo perché oggi c’è una plebe televisiva. Questa è stata la materia del mio teatro etico-politico e nell’usare lo strumento della musica per dare cuore e anima a questo teatro ho trovato la mia vocazione più propria che mi ha permesso di esprimermi e di riuscire a comunicare anche a platee molto vaste."

Nella sua carriera Lei ha toccato campi diversi: il teatro, il cinema, la musica e la scrittura, senza contare programmi in televisioni e in radio. Come riesce a conciliare queste esperienze comunicative così diverse tra loro?

"Io credo che, anche nella diversità delle esperienze comunicative, quando una persona ha urgenza di comunicare valori, ethos, memoria per costruire un futuro su di essa, soprattutto quando ha avuto la fortuna di essere dotata della capacità di articolare questa comunicazione e di mantenere sempre viva l’emozione di stupirsi mentre comunica, di inventare mentre parla, di scoprirsi mentre comunica: questo è il segreto per cui la differenza dei mezzi, in quel momento, viene cancellata dalla grande e poderosa risorsa della passione."

Lei è noto per il costante impegno civile a sostegno dei diritti dell'uomo e della pace ed è un punto di riferimento per le giovani generazioni. Nel 1995 il Comune di Firenze Le ha conferito il Sigillo per la Pace. Come ha vissuto questo importante riconoscimento?

"Questi riconoscimenti mi onorano enormemente perché io credo solo di fare quello che è il mio dovere di essere umano. Nella vita quello che noi siamo chiamati a fare è "costruirci" appieno: nasciamo gratis come uomini ma diventare un essere umano degno di questo nome è il capolavoro di tutta una vita! Che cos’è un vero essere umano? Un uomo che accoglie l’alterità sia nel suo simile, sia nella natura, negli animali nella vita; quando si sa cogliere l’alterità, quando si sa farsi indietro per accogliere l’altro, rispettarlo nella sua alterità e non omologarlo, allora si ha il diritto di far scrivere sulla propria tomba: Era un essere umano."

Che consigli dà ai giovani che si avvicinano al mondo della comunicazione?

"La cosa più importante è non perdere mai la passione per ciò che si fa: fare qualcosa per mettersi in gioco, perché a rischiare senza rischio, senza messa in discussione, senza messa in crisi delle certezze, senza la passione ed il coraggio che ci vuole per far questo, si fanno solo cose idiote. Per rompere la routine, per andare verso l’inedito, bisogna avere li coraggio di rimettersi in gioco e per fare questo ci vuole una grande determinazione, un grande pathos, una grande passione per la vita e soprattutto un grande rispetto per sé stessi."

Come saprà, l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" ha avviato un progetto denominato OASI. Si tratta di una riflessione sul rapporto tra la comunicazione ed i cambiamenti climatici. Quale crede sia il ruolo della comunicazione nella salvaguardia del pianeta?

"È fondamentale. Se non riusciamo a comunicare, informare e a dare conoscenza sull’integrità e sull’unicità della vita e sul fatto che l’intera creazione non è nostra, che noi siamo ospiti di passaggio e perciò abbiamo il compito di consegnare ad altri ciò che ci viene consegnato, ci si può rendere conto di quanto l’equilibrio di questa relazione sia delicato. C’è una vita anche dentro un piccolo organismo e quindi il rispetto della vita dovrebbe essere un valore integro, un valore di cui nessuno si può appropriare perché non c’è proprietà della vita, c’è solo relazione con la vita. Se così non sarà il pianeta andrà alla malora.
Abbiamo solo questo pianeta, non ne avremo un altro e se non si capisce il valore dell’unicità, che i figli che abbiamo messo al mondo vivranno in questo stesso pianeta, si perde la relazione col futuro. Per questo motivo la comunicazione deve diventare profonda: non bastano i dati e i sensazionalismi, ci vuole un’educazione fin da bambini, intima, che serva a costruire un rapporto con la vita non mercantile.
La vita non è in vendita, non è una merce bensì un’energia sacra, in senso laico, inviolabile, libera, eterna, che appartiene all’universalità."

Nel suo intervento ha parlato di teatro come forma privilegiata di comunicazione. Ci può spiegare cosa intendeva?

"In sintesi, il teatro è una forma di conoscenza, informazione e comunicazione che, muovendosi su tutti i registri conoscitivi - l’emozione, il sentimento, il concetto, il pensiero, le viscere, l’erotismo - offre una forma integrata, poderosa ed olistica di comunicazione che nessun’altra forma di assetto comunicativo può dare."

Può darci qualche anticipazione sullo spettacolo che andrà in scena questa sera?

"Lo spettacolo è quello che potrebbe definirsi un monologo in cui ci sono tante riflessioni e diverse storie. È una riflessione sul mondo dell’ebraismo cassidico, l’ebraismo della spiritualità mistica, di radice pietistico-popolare che ha avuto un’influenza enorme sul pensiero del Novecento, poiché è da lì che vengono alcuni grandi pensatori ebrei come Freud, Kafka, Marx e numerosi musicisti. Un’eredità di cui oggi rimangono gli aspetti meno dirompenti e sconvolgenti essendo stata annientata dallo sterminio ma che è ugualmente parte del nostro patrimonio senza che noi lo sappiamo.
Credo che sia anche compito del teatro "ammaestrare", trasmettendo il messaggio che a nostra volta abbiamo ricevuto da altri maestri, trattandosi di uno strumento unico di formazione e comunicazione."

Chiara Pasquinucci, Raffaella Sbrescia - Direttore: Alberto Manco