Pia Brancaccio: Il Buddhismo in America risposta al materialismo sfrenato
Pia Brancaccio: Il Buddhismo in America risposta al materialismo sfrenato
Il ricordo dell'Orientale, l'insegnamento alla Drexel University di Philadelphia
Professoressa Brancaccio, Lei si è laureata nel 1989 in “Lingue e Letterature Straniere”, nella Facoltà di Lettere, con una tesi su «La rappresentazione degli eretici nell’arte di Gandhara». Il Suo relatore, Maurizio Taddei, era un studioso di grandissimo livello e dunque fu ancor più significativo il Suo 110 e lode. Vuol dirci qualcosa su Taddei come docente? Sulla sua maniera di seguire un lavoro di tesi?
Certamente. Ero molto intimidita dalla grande conoscenza di Maurizio Taddei. Come lei giustamente rileva, Maurizio era un uomo di grandissimo valore intellettuale. Una persona gentilissima e rispettosa, sempre disponibile e generosa del suo tempo. Era un uomo di poche ma significative parole. Maurizio indicava ai suoi studenti la strada da seguire ma non interferiva nelle loro ricerche.
Quando gli chiesi la tesi di laurea, mi aspettavo da lui anche qualche suggerimento su quale potesse esser un buon argomento da studiare. Lui mi fece vedere una foto di un rilievo di arte del Gandhara che rappresentava il Buddha con un asceta nudo. Mi chiese che cosa ne pensassi, e se fossi interessata ad investigare chi fossero questi asceti nudi, e di quale scena del vita del Buddha si trattasse. Ovviamente dissi di sì, ma non avevo idea di come procedere: conoscevo poco la tradizione ascetica brahmanica. L’unica indicazione che Maurizio Taddei mi diede fu di cominciare a leggere un particolare testo della biografia del Buddha. Di lì cominciò la mia avventura di ricerca che durò per oltre un anno. Riuscii alla fine a leggere il rilievo ed a proporre una nuova interpretazione per questo genere di scene, interpretazione subito dopo pubblicata in un articolo sulla rivista di studi “East and West” sotto suggerimento di Maurizio Taddei.
Quali lingue aveva scelto di studiare?
Quando mi iscrissi all’Orientale la mia intenzione era di studiare la lingua cinese. Poi durante il primo anno seguii il corso di Storia dell’Arte dell’India tenuto da Maurizio Taddei. Ed è lì che la mia vita cambiò. Le sue lezioni erano incredibili, ricordo che le due ore del giovedì volavano, e non vedevo l’ora che la settimana seguente arrivasse. Decisi di cambiare orientamento e di indirizzarmi verso lo studio dell ‘Arte ed archeologia dell’India, e del mondo indiano in generale. Continuai a studiare cinese, ma scelsi come lingua parallela il sanscrito e cominciai a seguire corsi di storia, religioni e filosofie dell’India.
Come si erano sviluppati in Lei questi interessi? Suo padre è un noto geologo, professore di “Geografia fisica” presso la Federico II
In realtà mio padre è sempre stato molto interessato all’archeologia (da buon geologo!) e devo a lui questo interesse per l’arte e la cultura del mondo antico.
Certamente ha un ricordo preciso della Facoltà di Lettere al tempo dei Suoi studi. Poco dopo la Sua laurea, inizierà il processo che condurrà a istituire una Facoltà di “Lingue e Letterature Straniere” (approvata nel Senato Accademico del 23 settembre 1992). Può dirci qualcosa della Facoltà di Lettere nel suo antico assetto, ancora non divisa in due Facoltà. Che tipo di rapporti, per esempio, c’erano tra gli studenti orientalisti e quelli occidentalisti?
Io ho un ottimo ricordo della Università ai tempi dei miei studi. C’erano diverse opportunità per interagire con studenti occidentalisti, in particolare durante i corsi di lingua e letteratura inglese. Per quanto riguarda il mio personale corso di studi, Maurizio Taddei mi incoraggiò a seguire lezioni presso il Dipartimento di Studi del Mondo Antico e di lì nacquero profonde amicizie con studenti di quelle discipline. Alla fine del corso di Topografia dell’Italia antica, per esempio, ebbi l’opportunità di fare scavi archeologici a Paestum con il professor Emanuele Greco che cementarono i miei rapporti con docenti e studenti di quel Dipartimento.
Tra i docenti orientalisti, quali ricorda in modo più vivo? Quali erano, secondo Lei, le personalità di maggiore spicco?
Ovviamente Maurizio Taddei. Senz’altro personalità di spicco erano il prof. Adriano Rossi e il prof. Antonino Forte. Ho un ottimo ricordo anche delle lezioni del prof. Adolfo Tamburello.
Dopo la laurea, continuò i Suoi studi o ci fu qualche periodo d’incertezza sulla via da seguire?
Ci fu solo un breve periodo di incertezza, poi vinsi una borsa di studio per continuare i miei studi in India al Deccan College Post-Graduate and Research Institute in Pune, e i miei dubbi si dissolsero. In seguito ottenni una borsa di studio di Dottorato all’Orientale.
Da quanti anni è negli Stati Uniti? Si è inserita subito nella Drexel University di Filadelfia?
Sono negli Stati Uniti da 15 anni. Sono venuta qui con una borsa di ricerca presso il Metropolitan Museum of Art di New York, seguita poi da una collaborazione di un anno col Getty Research Institute di Los Angeles. A Philadelphia ho inizialmente lavorato come Research Associate presso il Dipartimento di Arte Indiana e Himalayana del Philadelphia Museum of Art, e poi ho vinto la cattedra alla Drexel University dove insegno da circa 8 anni
Ora vi insegna. Quale disciplina? La seguono molti studenti?
Insegno principalmente Storia dell’arte indiana, ma sono l’unica orientalista nel mio Dipartimento e quindi finisco col coprire l’Asia in senso lato, con particolare accento sull’arte buddhista.
Nei giovani, negli Stati Uniti, è vivo l’interesse per l’Oriente nella varietà delle sue culture? Secondo Lei, l’interesse è maggiore o minore rispetto a quanto avviene in Italia?
Sì, l’interesse dei giovani per queste culture è molto vivo qui – nel mio corso attuale di Storia dell’Arte Indiana ho ben 44 studenti!
Ricordo che, ai miei tempi di studentessa, il corso di Storia dell’Arte ed Archeologia dell’India con Maurizio Taddei era seguito solo da quattro studenti (io inclusa!).
Quali differenze nota tra l’Università italiana e quella degli Stati Uniti? Sappiamo bene tutti che si tratta di due modelli molto differenti tra loro, ma m’interessa il giudizio di chi – come Lei – ha un’approfondita conoscenza del funzionamento delle Università americane.
Come Lei giustamente osserva, i sistemi sono completamente diversi. Purtroppo io ho lasciato il sistema universitario italiano molti anni fa, e nel frattempo sono avvenuti profondi cambiamenti in Italia.
Senz’altro gli studenti al livello di undergraduate sono esposti negli USA ad una maggiore varietà di discipline; i docenti seguono da vicino gli studenti, il ritmo accademico è molto più intenso, e l’Università spinge sia studenti che docenti ad essere produttivi.
Si può dire che la diffusione del buddhismo negli Stati Uniti continui, ancora oggi, nella scia dell’interesse di massa suscitato dalla “beat generation” e da libri come «I vagabondi del Dharma» (1958) di Jack Kerouac, «Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta» (1974) di Robert Pirsig, per non parlare della diffusione mondiale di «Siddharta» (1922) di Hermann Hesse e così via? Quest’ultimo libro, benché non sia eccezionale, ha segnato per decenni intere generazioni di giovani.
No, non credo che il Buddhismo oggi abbia a che fare con la Beat Generation qui negli USA. Mi pare che invece sia piuttosto legato a trend attuali di riscoperta della religiosità e di identità di gruppo. La diffusione del Buddhismo in America credo che rappresenti piuttosto una risposta al materialismo sfrenato e all’incalzare dei ritmi frenetici di vita.
Lei ha curato un importante volume insieme a Kurt Behrendt, del Metropolitan Museum of Art, sul «Gandhāran Buddhism. Archaeology, Art, Texts» (2006) e il recentissimo «The Buddhist Caves at Aurangabad: Transformations in Art and Religion», pubblicato quest’anno presso le edizioni Brill (nella collana “Indological Library”). In Europa è difficile pensare che si possa fare Storia dell’arte senza avere una buona conoscenza della Storia delle religioni (almeno della mitologia greco-romana e del cristianesimo), e nel Suo ultimo volume Storia dell’arte e Storia delle religioni sembrano procedere di pari passo.
Sono completamente d’accordo con lei sull’importanza dei legami fra storia dell’arte e storia delle religioni. Nel mio libro ho cercato di evidenziare quanto l’arte, i testi e la pratica buddhista siano diverse manifestazioni dello stesso fenomeno religioso. In questo devo molto anche al lavoro di Gregory Schopen, uno studioso americano di Buddhismo antico, il quale nei suoi studi ha sottolineato quanto sia importante non trascurare la dimensione pratica del Buddhismo antico.
Mentre il cristianesimo tende a costruire le proprie chiese, e procede (per così dire) per “addizione”, le grotte buddhiste sembrano rinviare a una concezione che intende creare spazi per “sottrazione”. È d’accordo o ritiene del tutto priva di fondamento questa idea?
In un certo senso sì. Penso che nel caso dei monumenti religiosi del mondo indiano prevalga l’impressione che essi non siano i prodotti di un’ “addizione”, ma piuttosto che siano forme integrali del paesaggio naturale. In un certo senso è come se essi fossero pervasi dalla nozione di svayambhu o “self –manifested” ed occorressero spontaneamente o naturalmente.
Lei ha un bel ricordo dell’Orientale, dei suoi docenti, dei suoi studenti, delle sue atmosfere?
Ho un ricordo bellissimo. Uno dei miei posti preferiti era la biblioteca del Dipartimento di Studi Asiatici!
Francesco Messapi
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