Please no shooting. Johannesburg. Frammenti di un mosaico metropolitano
Please no shooting. Johannesburg. Frammenti di un mosaico metropolitano
Il secondo incontro del ciclo Storie d’Africa descrive le peculiarità dell'urbanesimo africano
InCampus, via Mezzocannone 14, 19 maggio - Due giovani studiosi dell'Orientale, Antonio Pezzano assegnista in Sistemi politici e sociali dell’Africa contemporanea e Giulia Ferrato, dottoressa di ricerca in Africanistica, animano l’incontro di oggi su Johannersburg, metropoli meticcia. ”Gli incontri del ciclo ‘Storie d’Africa’ vogliono tentare un racconto dell’Africa, o meglio delle Afriche, aldilà dei luoghi comuni, e anche aldilà delle contingenze storiche che vedono l’Africa sotto i riflettori sempre in concomitanza di conflitti più o meno cruenti”, spiega la Ferrato. L’intento odierno è quello di dimostrare che il continente africano, nel suo complesso, procede sulla strada di una forte urbanizzazione: Johannesburg, inserita già dalla fine dell’ottocento in contesto globalizzato, ne offre l’esempio più significativo. Esempio pieno di contraddizioni se accanto alle isole di benessere costituite da cittadelle e shopping mall in tutto e per tutto simili a quelli occidentali, per strada ci si imbatte sovente in cartelli che pregano “Please no shooting”, “Per favore non sparate”.
Si cambia approccio e orizzonte, dunque, rispetto al precedente incontro: l’Africa è plurale in tutte le sue manifestazioni, politiche e sociali. “Il sud-Africa, infatti, è tutto il contrario dello ‘stato fallito’ di cui abbiamo parlato la volta scorsa”, precisa Pezzano.
In occasione dei mondiali in Sud Africa, Johannesburg ha colto l'occasione per rivelare la sua ambizione a diventare world-city – le world city sono le città che costituiscono centri nevralgici del capitalismo internazionale come New York o Londra –, o meglio African world class city, ovvero una world city, sì, ma mantenendo la connotazione africana.
Preso atto di questa ambizione, gli studiosi hanno indagato le caratteristiche peculiari dell'urbanesimo sudafricano, attraverso immagini fotografiche e con il sussidio di un documentario, The battle for Johannesburg, girato poco tempo prima dei mondiali.
L’Africa sta diventando velocemente un continente urbano e l’Africa australe è un chiaro esempio di quest’evoluzione. L’urbanesimo del sud-Africa nasce con le miniere ed è quindi storicamente influenzato da movimenti migratori anche internazionali. Nello specifico la città Johannesburg è figlia dello sviluppo capitalistico e in particolare del settore minerario: essa nasce alla fine del settecento con la scoperta dei filoni auriferi. Quello sudafricano è il filone aurifero più cospicuo del mondo, ma si trova molto in profondità: ciò ha richiesto grossi investimenti di capitale. Ma ha anche attratto risorse umane: emigranti da tutte le parti del mondo e dal resto dell’Africa. La popolazione migrante, infatti, costa poco perché lavora stagionalmente e poi la si rimanda indietro. O almeno si prova a rimandarla indietro finché indietro non torna più e inizia a stabilirsi in prossimità del luogo di lavoro e a creare quegli agglomerati che poi diventano urbani. “A Johannesburg” – ricostruiscono Pezzano e Ferrato – “la costruzione della città parte con un forte elemento di disuguaglianza. Non è una società inclusiva delle diversità ma nasce con separazione tra gruppi sociali e gruppi razziali. L’emblema della società divisa sono i primi accampamenti di popolazione. Gli operai vengono immediatamente divisi. E anche gli Africani vengono divisi a seconda se fanno parte della classe operai o del sottoproletariato. Non è l’apartheid a introdurre la segregazione sociale, questa già esiste, l’apartheid è l’istituzionalizzazione della segregazione razziale”. Per controllare l’urbanizzazione africana le leggi stabiliscono che la quasi totalità del territorio sudafricano sia di proprietà dei bianchi colonizzatori e il resto è dei neri che vivono in una sorta di riserve. Le township costituiscono, appunto, i quartieri residenziali dei neri che, per accedere alle altre aree della città, hanno bisogno di un lasciapassare.
Terminata la ricostruzione storica, si è passati alla descrizione delle caratteristiche dell'urbanesimo di Johannesburg. Dopo la fine della segregazione razziale, i sobborghi periferici, le township, si accrescono sempre di più e quartieri come Soweto – che conta due milioni di abitanti sui tre milioni totali di Johannesburg – e Sandton diventano centri nevralgici. Mentre il centro direzionale si sposta sull'asse verticale che collega Johannesburg a Pretoria. Le varie componenti della popolazione metropolitana, però, continuano a non essere integrate. Johannesburg è la città con il più forte coefficiente di disuguaglianza sociale. I ricchi sono pochissimi e vivono barricati in cittadelle chiuse all'esterno, si muovono in shopping-mall che, come grossi parchi dei divertimenti, consistono nella ricostruzione di quartieri occidentali – molto amato è italian style – all'interno dei quali la popolazione bianca si sente finalmente tranquilla e può mantenere alto il proprio tenore di vita. Fuori da queste isole – le gates communities che rinveniamo anche in Brasile –, invece, l'inferno delle baraccopoli. La conflittualità è dunque altissima come, appunto, dimostrano cartelli quali “Si prega di non sparare” e “Controlla che non ci sia qualcuno che ti insegue”. Se davvero Johannesburg aspira a diventare world city, bisognerà davvero eliminare le baraccopoli e dare, come si è promesso – anche lì – una casa ad ogni cittadino. Ma anche in sud-Africa, come avviene altrove, l'edilizia popolare è gestita dalla criminalità e l'accesso alla casa risponde a regole dettate da clientele e corruzione.
Concetta Carotenuto
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