Progetto OASI: intervista al professore Franco Salvatori
Progetto OASI: intervista al professore Franco Salvatori
“Il mondo si è fatto piccolo ma non per questo conoscerlo è diventato più semplice”
Professor Salvatori, lei è presidente della Società Geografica Italiana, che pubblica un rapporto annuale dedicato a temi di attualità per il nostro Paese, dall’immigrazione al turismo, dalla paesaggistica ai sistemi urbani. Quale sarà il tema dell’edizione 2011?
“Sarà la questione meridionale o, meglio, il Mezzogiorno oggi. L’anno scorso è stata affrontata la ‘questione settentrionale’, cioè i problemi di uno sviluppo diseguale che riguarda anche rivendicazioni politiche di autonomia maggiore, di federalismo e addirittura di secessione; si è inteso verificare se effettivamente vi fosse un Nord e la deduzione ultima del lavoro fatto dalla Società Geografica ha visto invece una visione molto più articolata. Abbiamo parlato ‘dei Nord’, piuttosto che del Nord, e adesso vorremmo capire cosa succede nel Mezzogiorno per arrivare a una ricomposizione dopo il 150° anno dell’Unità d’Italia; quindi il rapporto del prossimo anno riguarderà la situazione dell’Italia nel suo insieme.”
In che termini sta la ‘questione meridionale’ per la Società Geografica Italiana?
“Certamente la questione meridionale è ancora del tutto aperta e che, dopo un certo periodo di convergenza, sta di nuovo segnando un riallontanamento tra le varie parti del Paese. In una situazione di crisi internazionale – che non è stata e non è soltanto finanziaria ma è produttiva, di riassetto degli equilibri mondiali – il Mezzogiorno è, in particolare, sofferenza, e sono sofferenza quelle aree di concentrazione dell'apparato produttivo che non riescono a competere, come per esempio l’area metropolitana napoletana, ma non soltanto. Vi sono una serie di problemi che riguardano il Mezzogiorno e che si compendiano nei forti divari della occupazione, o meglio della disoccupazione, e di quella giovanile in primo luogo; ma vi sono ricadute più propriamente geografiche, non solo sociali o socio-economiche: è un Mezzogiorno che è chiamato a rispondere di un uso del territorio fortemente dissennato, di un problema di gestione della risorsa ambiente particolarmente a rischio – pensiamo soltanto al problema della gestione dei rifiuti solidi urbani – il problema dell’utilizzo delle coste, della cementificazione, il fatto che il Mezzogiorno è il punto di approdo, se non di stanziamento, dell’immigrazione. Insomma c’è tutta una serie di elementi che fanno pensare a un Sud in forte tensione, e a questa forte tensione non corrisponde una eguale attenzione da parte di chi dovrebbe porla: anzitutto il governo centrale e, probabilmente, anche le stesse forze politiche localmente organizzate che si trovano in una qualche crisi di rappresentatività.
E poi c’è l’emergenza malavitosa, naturalmente, che permane e che – non sono stato certo io o la Società Geografica ad inventarlo – è la grossa palla al piede dello sviluppo del Mezzogiorno.”
In che relazione sono ambiente e immigrazione?
“Mah... sono secondo me in una potenziale relazione positiva; nel senso che l’immigrazione o meglio coloro che arrivano in Italia possono utilmente rimpiazzare, sostituire quelle quote di popolazione che hanno abbandonato le aree interne, per esempio, o le aree più marginali e che inevitabilmente sono andate in degrado ambientale. Un esempio: una caratteristica di gestione della risorsa territorio nel Mezzogiorno interno era legata alla costruzione di muri a secco che avevano, sì, la funzione primaria di segnare i campi e quindi la proprietà, ma che avevano anche tutta una serie di funzioni derivate – quali erano quelle dello spietramento, della messa a cultura di spazi che potevano essere mantenuti in quanto tali e quindi non scivolare a valle – ed erano quindi collegati a tutto il problema del dissesto idrogeologico oppure dell’abbandono dei borghi. Insomma c’è tutta una serie di questioni che potrebbero essere utilmente legate all’immigrazione.
Altrimenti, come in tutte le questioni, c’è anche una faccia negativa: l’altra faccia della medaglia è che l’immigrazione in quanto tale alimenta delle forme di insediamento precario, di insediamento marginalizzato che rendono ambientalmente, ma in senso più ampio, più difficile la gestione del territorio nel Mezzogiorno d’Italia.”
La Società si occupa anche di geopolitica, con particolare riguardo al ruolo dell’Italia nel Mediterraneo. Quali sono state le urgenze dell’ultimo periodo e quali altre si prevedono?
“Il sapere geografico fondamentalmente non è un sapere predittivo, neanche le cosiddette scienze sociali più avanzate – come l’economia o la politologia – riescono a prevedere. Qualcuno diceva molto intelligentemente che se l’economia fosse una scienza veramente predittiva allora tutti gli economisti sarebbero ricchi e, siccome gli economisti non sono ricchi, è probabile che anche la scienza economica – che ha elaborato modelli di previsione molto articolati e sofisticati – alla fine deve fare i conti con l’imprevedibilità e con i momenti caotici dell’evoluzione.
Nel caso del Mediterraneo, i fatti di questi giorni dimostrano come nessuno fosse stato in grado di prevedere un crollo istantaneo con effetto domino di tutta la riva sud, da un punto di vista dell’organizzazione politica, sociale ed economica. Qualcuno molto autorevole si chiedeva in questi giorni se vi fosse una ‘manina’, se vi fosse cioè un regista. E la risposta unanime è stata un no: è stato del tutto imprevedibile che le nuove generazioni – le generazioni che frequentano internet, che sono più colte, più preparate, meno tendenti alla sudditanza, e che sono le più numerose, tra l’altro, perché in questi Paesi la dinamica demografica è fortemente espansiva – sarebbero state, una volta accesa la miccia, i motori di una rivoluzione (di fatto!), le cui conseguenze non siamo ancora in grado di prevedere (appunto!) ma che certamente porteranno ad una riorganizzazione di tutto il Nord Africa, e quindi della riva sud del Mediterraneo e anche del Mediterraneo allargato, cioè di quello che arriva fino al Medio Oriente ed oltre. Tali effetti avranno ricadute importanti, non sappiamo se positive o negative… sarà certamente una miscela delle due. Immaginiamo se il processo di democratizzazione, come lo intendiamo noi, potesse prendere effettivamente piede, ebbene allora si tratterebbe effettivamente di aprire uno spazio di sviluppo economico significativo, legato appunto alla diffusione dei consumi, alla eliminazione delle baronie, di quelle situazioni sociali di potentato tipiche ancora di un trascinamento di un meccanismo feudale che nella riva nord del Mediterraneo – magari in Italia, in Grecia e nella stessa Spagna più tardivamente, altrove più tempestivamente – da tempo sono state eliminate.
Per quanto riguarda i fatti negativi, nell’orizzonte c’è la possibilità di radicalizzazioni di matrice pseudo-religiosa, e quindi la possibilità di instaurare regimi di tipo teocratico che metterebbero a rischio la convivenza in quanto radicalizzano lo scontro. Insomma è tutto da vedere e certamente, tra l’altro, il bello della geografia è proprio questo: che il mondo cambia continuamente e non è mai uguale a se stesso, e il nostro compito di poter leggere i processi e i fenomeni è un compito che si presenta ogni volta molto intrigante, addirittura entusiasmante.”
Lei fa parte della commissione per l’attribuzione del premio “Francesco Compagna” istituito dalla Società. Che tipo di contributi arrivano ogni anno e da dove nasce la volontà di istituire un premio del genere?
“Partiamo dall’ultima parte della domanda. Francesco Compagna è stato un grande meridionalista, è stato un personaggio che ha avuto una una straordinaria capacità intellettuale, quella di vedere la questione meridionale non in termini assistenziali, vecchi diciamo, ma di guardare alla questione meridionale con occhi nuovi, e cioè come un problema di sviluppo economico basato sullo sviluppo territoriale, sulla dimensione urbana dell’organizzazione del territorio. Compagna era meridionale – calabrese di origine e napoletano di adozione – era un grande intellettuale, un politico impegnato e geografo, sia pure originariamente contestato dall’accademia più tradizionalista. Faceva derivare il ritardo del Sud anche, e sia pure in maniera preponderante secondo lui, dal fatto che il Mezzogiorno fosse privo di una vera e propria armatura urbana: a parte il grosso bubbone napoletano e qualche altra realtà di un qualche significato, fondamentalmente c’è un deserto delle città, a differenza del Centro-Nord. Questo ha fatto sì che a circa trent’anni dalla sua scomparsa, dalla volontà di ricordare il suo impegno anche nella direzione della Società Geografica (ne è stato eletto vicepresidente), e per un sostegno pieno del Presidente della Repubblica, che era amico personale di Francesco Compagna – l’Onorevole Napolitano ha fatto, su posizioni politiche diverse, un tratto di strada comune con lui – si fosse deciso che il premio che la Società destina ai giovani ricercatori che hanno già manifestato capacità notevoli di attitudine alla ricerca si attribuisse ricordando questa figura. Le risorse sono state messe a disposizione dalla Fondazione Banco di Napoli e questo ci ha ulteriormente confortato.”
Negli ultimi anni gli insegnamenti di Geografia hanno subito tagli. Quanto conta lo studio della geografia nella formazione dell’individuo, anche nelle più tenere fasce d’età?
“Potrei essere un po’ deviato da visioni di bottega: essendo io un bottegaio della geografia, ritengo che il vino che vendo sia indispensabile, non solo buono, ma addirittura indispensabile. Però è innegabile che tra i saperi fondamentali che l’individuo, prima ancora che il cittadino – ma anche il cittadino – debbano possedere debba esserci quello geografico, inteso come il sapersi collocare nello spazio, il saper comprendere le relazioni territoriali come nascono, insorgono e si sviluppano, e questo è tanto più vero in un mondo che si fa sempre più piccolo.
In fondo, al contadino di due o tre generazioni fa bastava l’orizzonte del proprio villaggio; conoscere, appunto, l’orizzonte del proprio circondario, qualche realtà più vicina dove attingere alcuni beni non di uso quotidiano, magari la moglie – anche se valeva il principio che la moglie, come i buoi, dovessero essere del proprio paese – e dunque al contadino (quale erano tre o quattro persone su cinque) bastava conoscere la propria realtà locale. Non è più così, intanto perché la gran parte della popolazione ormai non è più rurale ma urbana, e questo su scala mondiale, e poi perché appunto il mondo si è fatto così piccolo che bisogna conoscere quel villaggio che è la globalità. E per conoscerlo l’unica scienza e l’unica disciplina che vi si applica sistematicamente è la geografia. Ma non bisogna solo conoscere il villaggio, bensì capire come esso si trasforma e come io, da cittadino e da abitante del mondo, posso contribuire a modificarlo, a indirizzarlo nella direzione che ritengo più giusta secondo il mio modo di vedere le cose; e questo mi pare che sia il sapere fondamentale, così come è fondamentale sapere da dove si viene (e quindi la storia), sapere come si comunica (e quindi la lingua) e sapere come si fa di conto e come si domina la realtà naturale (e quindi le scienze naturali). Mi pare che questa sia la motivazione fondamentale per cui la geografia non dovrebbe essere espulsa dalle scuole. Se poi l’argomento è che in fondo il mondo ti arriva in casa attraverso i mezzi di comunicazione di massa, che in fondo basta consultare google earth o altri mezzi di questo genere, allora l’obiezione è abbastanza semplice: questo è un modo assolutamente passivo di essere cittadini del mondo. Bisogna avere gli strumenti critici per comprendere dove si sta e come si sta e a questo dovrebbe provvedere la geografia.”
La Società Geografica custodisce nella sua biblioteca il più ricco patrimonio di documenti del settore in Italia, ed uno dei più ricchi in Europa. Quali sono i pezzi custoditi di cui è più fiero?
“I pezzi custoditi di cui vado più fiero come presidente della Società Geografica non sono, come si potrebbe pensare, quei documenti cartografici, pezzi unici: una carta nautica coeva di Colombo, oppure documenti cartografici pezzi unici come le collezioni di cartografia cinese e giapponese datate tra i secoli XVII e XIX, che sono negli archivi della Società. I pezzi di cui vado veramente fiero sono anzitutto la documentazione fotografica, che è unica, perché si tratta di fotografia pensata ‘geograficamente’; tutte le attività di esplorazione e conoscenza del mondo che la Società ha promosso durante i suoi 150 anni di vita sono state documentate fotograficamente. Questo è un patrimonio rimasto spesso misconosciuto, poiché fino a pochi anni fa la fotografia non veniva ritenuta un documento culturalmente importante, e invece ora si è compreso quanto fosse importante, anche in termini pratici, utili, per ricostruire le trasformazioni del territorio e quelle paesaggistiche. E l’altra realtà della quale la Società Geografica ed io personalmente andiamo fieri è tutta la documentazione cartografica preunitaria. Nel nostro paese, in Italia in genere, la cartografia è stata elemento di primato; dal Rinascimento in poi le scuole cartografiche italiane – da quella veneziana a quella fiorentina, da quella genovese a quella napoletana, e forse anche quella romana – erano scuole importanti che hanno prodotto non soltanto sull’onda di tecnologie e di modelli di rappresentazione derivati altrove (la cartografia olandese ad esempio) ma sono state esse stesse promotrici di forti innovazioni tecnologico-scientifiche applicate alla presentazione cartografica, oltre che in termini proprio grafici, in termini di capacità di stampa; e questa produzione custodita dalla Società Geografica è di una esemplarità importante e vale la pena di ricordarla come un cimelio di cui andar fieri.”
Come viene finanziata una biblioteca così ricca di materiali?
“Il problema del finanziamento della biblioteca è un problema grosso e sta diventando sempre più spinoso perché occorrono ingenti risorse per evitare che la biblioteca diventi una specie di museo, cioè che da biblioteca viva diventi una biblioteca morta – che pure è importante; ci sono molte biblioteche che a un certo punto hanno cessato di acquisire e però costituiscono una realtà necessaria a cui bisogna far riferimento. Siccome il mondo, appunto, è in continua trasformazione, la Società Geografica dovrebbe poter acquisire materiale bibliografico e cartografico, soprattutto, in continuità e in dimensioni sempre più crescenti, e questo è di fatto impossibilitato dalla mancanza di risorse; allora surroghiamo in vario modo. Anzitutto c’è una forte attività di scambio, per cui noi inviamo le nostre pubblicazioni in giro per il mondo, e in cambio arrivano le pubblicazioni delle tante Società Geografiche del mondo, ma anche di tanti Istituti e Dipartimenti di geografia che sono in giro per il mondo. La stessa cosa avviene con gli studiosi italiani i quali, magari desiderosi che le loro opere vengano acquisite in biblioteca o recensite, ne fanno omaggio alla biblioteca. Cerchiamo poi di avere in donazione dagli istituti pubblici tutte le produzioni cartografiche, per esempio quelle dell’Istituto Geografico Militare, o dell’Istituto Geografico della Marina, eccetera eccetera, e questo ci consente di essere al quanto al passo, ma in maniera appena sufficiente: un sei meno meno meno. Se si pensa che in questi anni alcuni abbonamenti a riviste che non vengono date in cambio costano nell’ordine dei 300, 400 o anche 700 euro l’anno – e la dotazione per la nostra biblioteca, quando va bene, raggiunge i 10.000 euro a disposizione per l’anno – diventa veramente difficile. Insomma, però, quel sei riusciamo ancora ad aggiudicarcelo.”
Le Giornate di Studio organizzate per marzo hanno come titolo Allarme globale. Dieci azioni massmediali per salvare il Pianeta. Ci elencherebbe un paio di azioni massmediali che secondo lei sarebbero efficaci?
“Un’azione è quella che ho proposto di esaminare nel Convegno di Procida, e cioè trovare la maniera di comunicare alla maggior parte della popolazione del mondo come la dimensione locale sia una dimensione che debba essere assolutamente riscoperta e rivalorizzata, non in contrasto ma assieme alla dimensione globale. Questo perché soltanto pensando a casa propria le azioni quotidiane di ogni individuo possono essere finalizzate alla salvaguardia dell’ambiente. Se io penso che uso un cotton fioc e lo butto nel water e raggiunge il Pacifico... «ma chi se ne frega del cotton fioc che non raggiunge il Pacifico e non degrada!»; se però penso che quello stesso cotton fioc mi va a ostruire la fogna di casa, allora faccio attenzione. Questo è un po’ il punto, il rapportarsi dell’esistenza dell’uomo all’ambiente, che è ovviamente un ambiente globale dal momento che la più piccola azione compiuta dentro casa propria ha ripercussioni agli antipodi. Di questo ne siamo ormai certissimi, però non ne abbiamo la consapevolezza culturale. E credo che un’azione di questo genere spesa a livello massmediatico, cioè attraverso televisione, internet e giornali, potrebbe essere molto utile.
L’altra azione riguarda la possibilità che i singoli individui e gli individui organizzati prendano consapevolezza del fatto che la diversità è un valore e non un disvalore. Cioè che il mondo è bello perché è vario, come cita un vecchio slogan che si dovrebbe ripetere, nel senso che noi istintivamente, e sottolineo istintivamente, siamo portati a considerare la nostra civiltà, la nostra identità, la nostra cultura come quella superiore. Quante etnie per esempio si sono definite ‘gli uomini’, oppure i barbari e i non barbari, i civili e i non civili, è un fatto innato; però noi non siamo entità esclusivamente istintive, siamo anche e fondamentalmente entità culturali. Tarda a diffondersi l'importante la presa di coscienza culturale che la diversità culturale è un arricchimento e non un impoverimento. E questo dobbiamo derivarlo proprio dall’osservazione della natura: nella natura la diversità biologica è la condizione della sopravvivenza della vita. La vita esiste in quanto esistono più individui, esistono le diversità. Se esistesse una sola specie, quella specie inesorabilmente finirebbe, e con essa la vita. Il fatto, invece, che le specie siano molteplici dal punto di vista biologico ci dice molto; e così come ormai ci siamo abbastanza resi conto che la biodiversità è un fattore positivo, anche la diversità culturale deve cominciare ad essere considerata un fattore positivo. Purtroppo invece il mondo sta andando in un’altra direzione, grazie anche al fatto che le alterità che consideravamo lontane adesso le valutiamo molto da vicino e allora ci preoccupiamo e ci allarmiamo. Non ci dobbiamo preoccupare e allarmare e credo che in questo senso i mass media possano fare molto.”
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Valentina Russo
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