Quando lo spazio si fa identità: riflessioni linguistiche e socioculturali
Quando lo spazio si fa identità: riflessioni linguistiche e socioculturali
Dal 4 al 6 giugno 2012 a Palazzo Du Mesnil si è tenuto il Convegno internazionale “Space, place and the discursive construction of identity” che ha visto la partecipazione di numerosi linguisti – perlopiù anglisti – italiani e stranieri che hanno discusso il tema della concezione e della rappresentazione dello spazio attraverso la lingua e, più in generale, attraverso il linguaggio.
Lo spazio, inteso in queste giornate in senso lato come spazio fisico e virtuale, come luogo geografico o d'espressione, ma anche come un viso, una storia o una pagina scritta – come ha voluto ricordare a conclusione dei lavori uno dei keynote speaker, Greg Myers (University of Lancaster) – può essere un'ottima lente di ingrandimento per comprendere le dinamiche di costruzione dell'identità. E di identità – culturale, sociale, comunicativa ed idiosincratica – si è parlato in queste tre giornate. “Attraverso i contributi ascoltati abbiamo capito che ogni area, ogni spazio ha una moltitudine di identità”, così si è espresso Geoffrey Williams (Università Bretagne-Sud) rallegrandosi di come la questione delle relazioni spaziali sia stata affrontata non solo dal punto di vista della lingua orale e di quella scritta, ma anche da quella del “silenzio”, in particolare con il contributo sulla lingua dei segni tenuto da Julie Rinfret (University of Québec à Montréal).
Le relazioni presentate durante l'ultima giornata di lavoro sono state spunto per le conclusioni ed il dibattito finale e si sono occupate, rispettivamente, della costruzione dell'identità nell'uso di toponimi in situazioni di plurilinguismo, delle metafore dello spazio nella comunicazione architettonica specialistica e non, e della costruzione dello spazio narrativo in alcuni testi letterari.
I toponimi possono rivelarci qualcosa dell'identità dei parlanti? Soprattutto in situazioni di plurilinguismo o di contatto linguistico la questione si fa interessante. Ce ne parla Sarah Leroy (Université Paris Ouest, Nanterre La Défense) proponendo il caso della regione algerina di East Kabylie dove convivono francese, arabo e varietà locale (Kabyle) e dove le colonizzazioni latina, araba, turca, francese hanno lasciato le proprie tracce proprio nella toponomastica. Attraverso l'esempio del toponimo Bgayet (ar. Bejaia; fr. Bougie), indagato attraverso interviste e questionari a parlanti nativi, la relatrice mostra come la scelta della variante linguistica usata per riferirsi allo stesso luogo dipenda non solo da fattori socioculturali quanto anche dalla situazione comunicativa in cui questi vengono utilizzati e dal canale scelto (lingua scritta vs orale).
Rosario Caballero (keynote speaker dell'Università di Castilla-La Mancha) ci parla delle metafore collegate allo spazio ed al corpo del parlante – vale a dire di uno dei temi più discussi nelle tre giornate, quello del cosiddetto concetto di embodiment – concentrandosi su quelle metafore che implicano costruzioni architettoniche “concrete”.
Ma siamo sicuri che lo spazio sia veramente tangibile, concreto? Cosa lo differenzia, in questo senso, da quei concetti come il tempo, l'amore ed altri che consideriamo astratti? Siamo davvero sicuri che tutto il materiale linguistico collegato allo spazio passi o sia originato dal canale visivo? Queste le domande poste dalla studiosa alle quali, in parte, fornisce ella stessa una risposta: ciò che esperiamo quando ci troviamo in uno spazio riguarda innanzitutto le sensazioni veicolate dal nostro corpo che coinvolgono i cinque sensi (non solo la vista) e che ci aiutano a costruire e raccontare la realtà che ci circonda. Difficile da credere? Basta provare a raccontare com'era fatta la cucina della mamma oppure, molto più semplicemente, dare uno sguardo ai commenti sugli hotel che i turisti lasciano in Rete. Ma la conferma maggiore viene proprio dagli architetti, che con lo spazio ci lavorano e nei cui testi ritroviamo la stessa sensibilità per la “multisensorialità” dello spazio. Il gergo degli architetti è infatti ricco di metafore organiche, tessili, linguistiche, musicali, meccaniche, e così via, oltre che visive.
Dunque anche in questo caso, come dimostrato in queste giornate di lavoro, la concezione dello spazio è strettamente legata all'identità della comunità che lo vive e si riflette nei mezzi linguistici adoperati per descriverlo, per descrivere – come sottolineato dallo studio sulle strategie di rappresentazione semantica dello spazio (Direct Acylic Graph e Threading) di Greg Lessard e Michael Levison (entrambi della Queens University, Canada) – e, in conclusione, per descriversi.
“S'è detto molto dell'embodiment in questi giorni e, se ci pensiamo, tutta la comunicazione è mediata dal corpo, attraverso le lingue. Durante la comunicazione occupiamo lo spazio con diverse modalità, anche linguistiche, diverse in ogni cultura. Le nostre relazioni con gli altri diventano spazio: è da qui che viene l'identità; il solo nominare le cose fissa non solo le cose stesse ma parte dello spazio che occupiamo e ci fa capire anche come lo percepiamo” conclude Jocelyne Vincent (L'Orientale) alla tavola rotonda a cui partecipa con gli ospiti Greg Myers, Rosario Caballero, Geoffrey Williams, Rita Salvi (La Sapienza, Roma) e la promotrice dell'evento Julia Bamford che, nell'esprimere la propria gratitudine a Giuseppe Balirano, a Jocelyne Vincent ed ai dottorandi che hanno collaborato all'organizzazione, si augura di poter presto pubblicare gli Atti del Convegno.
Valentina Russo
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