Quello che non è ancora arrivato dal Giappone in Italia: la musica folk rock
Quello che non è ancora arrivato dal Giappone in Italia: la musica folk rock
Ormai sembra che nulla sia ignoto in Italia della cultura giapponese, eppure esiste un genere musicale che ancora pochi conoscono. Ne parliamo in quest’articolo
Dal sushi al judo passando per i Pokémon per arrivare ai romanzi di Haruki Murakami, senza dimenticare i film di Kurosawa o la monumentale opera del Genji Monogatari : ormai pare che non ci siano produzioni culturali giapponesi sconosciute in Italia. Eppure, in questo flusso di contatti e idee, esistono ancora delle zone d’ombra con generi che raramente valicano i confini del Paese: uno di questi è la musica folk-rock giapponese. Sarebbe naturale se fossimo davanti ad una cosa di scarso valore, ma qui si tratta di una produzione artisticamente rilevante sia a livello quantitativo che a livello qualitativo.
Ispirandosi a Bob Dylan e altri simili artisti americani, i primi autori giapponesi fanno la loro comparsa sulle scene alla fine degli anni Sessanta proponendo un repertorio di canzoni di protesta. Poco più tardi, esordiranno anche le prime rock band (sul modello di gruppi come Beatles, Beach Boys e Buffalo Springfield) che, non ritenendo il giapponese adatto alle musicalità rock, preferiscono però cantare in inglese. Il definitivo superamento della ‘questione della lingua’ avverrà nel decennio successivo con l’apparizione di brani solo in giapponese che parlano di sentimenti, problemi sociali o temi presi in prestito alla tradizione poetico-letteraria.
Trovare il motivo per il quale le produzioni folk rock nipponiche sono ancora così poco conosciute in Italia è semplice: per apprezzare questo tipo di musica è necessario avere una conoscenza approfondita della lingua e della sensibilità giapponese.
Infatti, per distinguersi dalla musica folk rock del resto del mondo con la quale condivide gran parte delle sonorità, gli autori di questo genere riservano particolare attenzione alla stesura dei testi e al loro arricchimento tramite giochi di parole, termini gergali, allusioni ed altre sfumature espressive difficilmente comprensibili ai non-madrelingua. Il risultato sono canzoni che, seppur dotate di bellissimi testi, sono di difficile fruizione in un mercato estero.
D’altra parte, un fenomeno analogo si può osservare anche nella direzione opposta: nel Giappone di oggi, affollato di immagini italiane, dove nessuno ignora cosa sia la pizza, la Ferrari, la lirica, la Divina Commedia di Dante, i quadri di Leonardo o i film di Fellini, produzioni come le canzoni di De Gregori, di Gaber o quelle di Elio e le Storie Tese sono pressoché ignorate anche da appassionati di cultura italiana.
Nel tentativo di colmare in minima parte le lacune sul versante italiano e far conoscere meglio la musica folk rock giapponese, presentiamo qui uno dei gruppi più rappresentativi degli ultimi anni: la band originaria di Kyoto chiamata Quruli (pronunciata in giapponese kururi).
Fondata da un gruppo di tre amici nel 1996 all’interno del circolo musicale dell’Università Ritsumeikan, non senza cambiamenti nella composizione interna, la band ha prodotto finora nove album e tre compilation, vendendo un totale di circa un milione e mezzo di copie. Una curiosità: kururi è una parola onomatopeica che indica un moto rotatorio.
Impossibile spiegare il loro stile musicale senza ascoltare almeno una delle loro canzoni nelle quali spesso ad una voce che alterna rabbia e nostalgia, si accompagnano vigorosi assoli di chitarra elettrica e basso. In un ipotetico invito all’ascolto, rappresentativi e consigliati sono senza dubbio i singoli Bara no Hana (‘fiore di rosa’), Haiwei (‘highway’, autostrada) e Tokyo.
Per capire come sia profonda e mai scontata la produzione dei Quruli, basta avvicinarsi al testo proprio di quest’ultima canzone (incisa nel 1998) e analizzarla come se fosse una poesia in modo da percepire quei temi, contenuti ed emozioni che sfuggono ad ogni tentativo di traduzione.
Dato che qualsiasi spiegazione potrebbe rovinare la prima spontanea impressione, il consiglio è di ascoltare la canzone (disponibile a questo link) prima di procedere con la lettura del brano tradotto in italiano.
1) Sono venuto alla città di Tokyo // 2) Come prima, dico delle cose incomprensibili
3) Non ti pare così rozzo? // 4) Nella stazione a volte mi viene la nostalgia di te di una volta
5) Avendo preso la pioggia, loro si sono raffreddati// 6) Come prima, io comunque me la sto cavando
7) Riposandosi bene, guariranno senz’altro // 8) Stasera, per un po’, ti chiamerò, ho pensato
9) Che tu non ci sia // 10) Ch’io non sia capace di parlare bene con te
11) Che tu fossi stupenda // 12) Che l’abbia dimenticato // La La La
13) Cambiamo discorso, quest’estate non farà così caldo // 14) Come prima, vorrei essere sensibile alla stagione
15) Veloce, sbrigati! Vado a comprare da bere // 16) Strada facendo, per un po’, mi è venuto la voglia di telefonarti di nuovo
17) Tu ci sarai? // 18) Io sarò capace di parlare bene con te?
19) Lascia stare // 20)Ma sarà molto duro.
21) Che tu fossi stupenda // 22) Ora per un po’ ci ripenserò?
23) Ci ripenserò per un po’? // 24) Tu ci sarai? tu ci sarai? // 25) Io sarò capace di parlare bene con te? // LALALALA…
Già dal titolo si capisce che la canzone è ambientata a Tokyo, la capitale e la città più importante a livello economico-culturale del Giappone contemporaneo. Tuttavia, è ovvio, la maggioranza dei giapponesi non nasce a Tokyo anche se molti sognano da piccoli di stabilircisi per studio o per lavoro. Eppure, una volta che si inizia una vita in città, questa si trasforma in una megalopoli ‘senza famiglia’ e ‘senza vecchi amici’. Così Tokyo viene vissuta da tanti giapponesi con un certo amore-odio, un sentimento che è stato fonte d’ispirazione anche per molti altri autori.
Questa canzone inizia utilizzando la versione cortese del verbo (teineigo) ‘dete kimashita’ (lett. ‘uscire’), un dettaglio essenziale che però sfugge nella versione tradotta. In questo modo si suggerisce agli ascoltatori che non si tratta di un semplice monologo ma che queste parole sono destinate a qualcuno. Ma a chi? Nel verso seguente il personaggio principale di questa canzone dice ‘come prima’: queste parole, dunque, saranno rivolte a qualcuno che conosce il suo passato.
Il destinatario è rivelato a partire dal quarto verso quando si dice ‘di te’, che in giapponese suona come ‘kimi’. Questo pronome designa la seconda persona singolare con una connotazione particolare: viene impiegato soprattutto dagli uomini con una sfumatura affettiva. Quindi il destinatario deve essere una persona di cui il protagonista maschile sente la nostalgia, cioè molto probabilmente femminile (una ragazza o una donna).
Dal quinto verso inizia la seconda strofa ed interessante è il fatto che si introduce un terzo soggetto, ‘loro’ (in giapponese ‘karera’ ). Alternando il soggetto (loro>io>loro) si arriva all’ottavo verso in cui non c’è più la forma cortese: è il segnale che da qui comincia il monologo interiore del protagonista.
Sarà il dialogo virtuale con la persona cara lasciata al suo paese (vv. 1-7) a fargli venire la voglia di telefonarle. Questo ottavo verso collega le prime due strofe con la terza in una sorta di ritornello nel quale si parla dell’esitazione a telefonare e delle scuse addotte dal protagonista. Il verso 9 può essere interpretato almeno in due maniere: ‘che tu non ci sia qui con me’ e ‘che tu non ci sia vicina al telefono che sto per chiamare’. Il verso 11 ‘che tu fossi stupenda’ è una frase nominale anche se non è più una scusa. Il verso 12) è ancora una frase nominale ma il verbo sostantivato ‘dimenticare’ richiede un complemento oggetto, che potrebbe essere costituito dal verso precedente: ‘Ch’io abbia dimenticato che tu fossi stupenda’ potrebbe dunque essere una delle ragioni per cui non chiama.
Nella strofa successiva riprende il dialogo virtuale e, di nuovo, al protagonista viene voglia di telefonarle. Questo fa parte del secondo pseudo-ritornello nel quale variazione rispetto al primo è ricca di significati. Nei primi due versi di questa strofa, infatti, l’affermazione si è trasformata in una frase interrogativa nonostante il cambiamento a livello del suono sia minimo. Così come i versi 19-20 ‘Lascia stare’ e ‘Ma sarà molto duro’ e ‘Ch’io abbia dimenticato che tu fossi stupenda’ slittano nei versi seguenti trasformandosi anch’essi in domande, anche se accompagnati da una melodia diversa.
In questi passaggi del testo il pensiero del protagonista procede in una maniera non-lineare, paragonabile quasi ad unostream of consciousness dei romanzi del Novecento. Questo espediente si rivela estremamente efficace per esprimere lo stato d’animo tipico di quando si lascia una persona cara: si cerca di dimenticarla e si dice tra sé che la si è dimenticata, ma in qualche situazione inaspettata ce ne si ricorda e ci si sente male. Alla fine si capisce che il vero addio è solo il momento in cui si sbiadiscono i ricordi.
Questo andare e venire di pensieri, del resto, corrisponde perfettamente allo stile della musica: la chitarra elettrica alterna un accordo basso con uno alto, creando un effetto drammatico e rendendo la canzone circolare e ripetitiva.
Infine ricorrono nel testo, significativi tratti della tipica sensibilità giapponese: oltre al leitmotiv dell’incertezza del ‘non dire’, il gusto estetico giapponese si presenta, ad esempio, anche nella lacerazione voluta del rapporto causa-effetto tra versi successivi della canzone.
Il risultato della combinazione di tutto questo con il tema del forestiero a Tokyo la rende una delle canzoni giapponesi più belle nel panorama musicale contemporaneo.
Kosuke Kunishi, Fabiana Andreani
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