Rita Librandi: "L'Università italiana? Abbiamo molto da farci invidiare!"

 

Rita Librandi: "L'Università italiana? Abbiamo molto da farci invidiare!"

Rita Librandi

A Toronto su invito della Emilio Goggio Chair. Una vita per l'italianistica. Gli amici: "Rita? Una calabro-ungarica!"

Professoressa Librandi, cosa insegna all’Orientale?

“Linguistica italiana ma anche Storia della lingua italiana: le due discipline sono strettamente connesse, nello stesso settore disciplinare, e quindi il mio insegnamento riguarda sia l’italiano contemporaneo, le sue strutture, i suoi usi, le sue varietà, sia uno sguardo alla storia della nostra lingua, non solo intesa come storia della lingua letteraria naturalmente, ma come storia anche della lingua scientifica, della lingua dell’arte e in tutte le sue possibile espressioni dalle origini fino ai nostri giorni.”

Che cos’è l’Emilio Goggio Chair?

“Emilio Goggio Chair è un’istituzione dell’Università di Toronto istituita grazie a un fondo stabile donato dalla famiglia Goggio, il cui antenato, Emilio Goggio, è stato un pioniere degli studi di italianistica nel Nord America e in particolare all’Università di Toronto ha iniziato già negli anni Venti del Novecento l’insegnamento di lingua e letteratura italiana. Ci ha creduto e lo ha sostenuto per molti anni fino a quando, subito dopo la seconda guerra mondiale, non divenne il primo direttore di un dipartimento che all’epoca metteva insieme solo le lingue romanze. Successivamente, con la scomparsa di Emilio Goggio, il dipartimento di italiano ha avuto una sua vita autonoma e la famiglia decise di onorare la memoria del padre fissando questa fondazione e questo finanziamento stabile, anche integrato dall’Università di Toronto, per le ricerche e pubblicazioni nel settore dell’italianistica ma anche per i Visiting Professor che si muovono dall’Italia a Toronto per tenere dei corsi di livello avanzato per i dottorandi in italianistica. Oltre a questi corsi si chiede al docente di turno di tenere una conferenza rivolta a docenti, studenti e a tutti gli interessati agli studi di lingua e letteratura italiana.”

Quali sono le attività del Department of Italian Studies?

“Il Department of Italian Studies dell’Università di Toronto è ancora oggi il più grande dipartimento di studi italiani del Nord America: facile comprenderne il motivo in quanto tra gli anni Sessanta e Settanta c’è stata una forte emigrazione dall’Italia in Canada e si è associata a questa forte domanda di studio dell’italiano da parte delle seconde e terze generazioni di studenti italiani, la nota politica del multilinguismo e multiculturalismo di Trudeau che ha favorito lo studio delle lingue diverse dall’inglese e dal francese, che sono le lingue ufficiali del Canada, anche attraverso lo studio nelle scuole e nelle università di queste lingue. Devo dire che si tratta di qualcosa che dovremmo cercare di imitare anche noi in Italia invece di arroccarci! Giusto che i nostri immigrati conoscano l’italiano, senza che questo sia considerato una discriminazione, ma sarebbe anche giusto che potessero studiare le loro lingue e recuperare la loro cultura e le loro radici. In ogni caso questa pressione della domanda e la possibilità di sviluppare meglio i propri programmi grazie a una politica del governo che favoriva tutto ciò, ha fatto sì che il dipartimento di studi italiani dell’Università di Toronto sia divenuto il più grande soprattutto per la capacità di offrire non solo studi di letteratura italiana, che sono più tradizionalmente diffusi quando si parla di italianistica nelle università straniere, ma anche di lingua italiana, filologia, storia dell’arte, storia della musica; tutti i settori insomma ben presto hanno attratto anche studenti non di origine italiana che hanno trovato lì un’offerta molto ampia nei settori dell’italianistica.”

Che cosa farà lei a Toronto nelle tre settimane che vanno dall'1 al 18 febbraio 2011?

“Io sono stata invitata all’interno della Emilio Goggio Chair e mi sento molto onorata perché sono state invitate persone come Umberto Eco, Romano Luperini, Remo Bodei e molti altri. Spero veramente di essere all’altezza e soprattutto di riuscire a portare un’immagine dell’Orientale che coincida con quella che merita. Più specificamente terrò anche io un seminario per i dottorandi di italianistica sulla lingua e la letteratura medievale, in particolar modo sui testi di argomento religioso perché la prima ricca messe di testimonianze in volgare sono state proprio quelle di argomento religioso: basti pensare al Cantico delle creature di Francesco D’Assisi che apre la nostra letteratura. La conferenza che invece ogni italianista invitato dalla Goggio Chair deve tenere pubblicamente sarà più spostata sul Novecento: il titolo esatto è Tra testo letterario e documentazione storica: il caso del Modernismo e riguarderà quegli anni molto importanti per la nostra storia e per la nostra unità politica, visto che siamo in piena celebrazione dei 150 anni, che concernono la crisi del Modernismo, cioè dei cattolici nella rottura tra lo Stato e la Chiesa. Il Modernismo rappresentò una corrente che chiedeva una riforma e un’apertura della Chiesa e che ebbe come espressione letteraria in particolare quella del Santo di Fogazzaro, un’opera che sul piano letterario ha qualche pecca ma che è un documento storico forse sottovalutato di estrema importanza e fonda molto del nostro linguaggio politico contemporaneo.”

Lei che tipo di rapporto ha con i suoi studenti?

“Il rapporto in questi anni è abbastanza cambiato: gli studenti di triennio seguono il mio corso al primo anno e spesso non hanno quasi conoscenza di una terminologia di tipo linguistico; al triennio cerco di dare uno spazio più ampio all’italiano contemporaneo per ovvi motivi, soprattutto insegnando in una facoltà di lingue dove gli studenti sono particolarmente interessati allo studio delle lingue straniere. Tra l’altro, in particolare nel Corso di Mediazione linguistica e culturale questi studenti si preparano al lavoro di mediatori, traduttori, presumibilmente dalla lingua straniera alla loro lingua d’arrivo e forse una conoscenza adeguata delle forme, degli usi, delle strutture dell’italiano è necessaria. Un più piccolo spazio è comunque di carattere storico perché non dimentichino la loro storia e le loro origini. Devo dire che il risultato alla fine non è negativo: certo parliamo di grandissimi numeri, quest’anno addirittura il corso è stato sdoppiato per l’altissimo numero di immatricolati, però io ho mediamente tra i centocinquanta e i centottanta studenti al primo anno. Mediamente il risultato è positivo perché lo studente, quando arriva dalla scuola è ancora in una fase che definirei adolescenziale e chiede una sola cosa, che il docente mostri di essere veramente interessato a ciò che lui sta facendo. Se si rende conto che il docente vuole veramente che lui impari, che vada avanti, che ci tiene quasi a livello personale, lo studente cresce e quindi di solito ho delle buone soddisfazioni, però poi dire che dopo questo primo anno i ragazzi hanno appreso queste nozioni di base e sono già pronti a una ricerca sulla linguistica italiana ancora è troppo presto. Diverso è il rapporto con gli studenti della magistrale dove c’è una selezione maggiore, una motivazione maggiore e quindi molti di loro continuano poi a venire da me a chiedermi consigli: come già detto la lingua italiana è necessaria comunque per tutti coloro che si preparano al lavoro di esperto, da qualsiasi punto di vista, della lingua straniera, perché è sempre uno sbocco per il quale si devono fare tramite. Molti poi mi chiedono la tesi che cerchiamo di raccordare con la lingua straniera e il livello cambia notevolmente con una certa soddisfazione!”

Qual è il peso dell’italianistica nelle università straniere?

“Non è da poco: c’era stato un certo calo dopo la grande crescita negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale proprio per il numero ingente di emigrati sia nell’America del Nord, sia in quella del Sud, sia nel Nord Europa. Potremmo parlare di una stabilizzazione poiché non si è mai assistito a un calo eccessivo: l’italiano veniva studiato soprattutto perché è una lingua di cultura e perché allo studio dell’italiano era legato un interesse per la letteratura, per la storia dell’arte, per la storia della musica. Difficilmente uno studente straniero che studi storia dell’arte, soprattutto se rinascimentale, non studia anche un po’ di italiano. Io il primo anno in cui ho insegnato all’Orientale ho avuto uno studente cinese che studiava l’italiano perché studiava come cantante lirico. Naturalmente negli anni Ottanta c’era stata quasi la moda dell’italianità: la moda, il design, eccetera. Adesso si assiste a una ripresa nuova, diversa, nel senso che molti paesi non occidentali stanno emergendo, stanno affacciandosi alla vita economica dell’Occidente e quindi sempre più studenti studiano l’italiano non più per un’esigenza di tipo culturale ma perché o imprese italiane investono in questi paesi, e quindi hanno necessità di avere un personale che parli italiano, o perché si sviluppano gli scambi commerciali con l’Italia. Ad esempio l’Università di Hanoi, con cui adesso stiamo cercando di fare un accordo di titolo doppio riconosciuto, ha una media di circa duecenti studenti all’anno di lingua italiana, che è un risultato di tutto rispetto. Da pochi anni a questa parte, infatti, stiamo di nuovo risalendo nelle classifiche riprendendo il terreno che era stato guadagnato dallo spagnolo e dal francese. Sta quindi a noi, e soprattutto al governo italiano, cercare di sostenere tutto ciò perché in questo il governo italiano è sempre stato molto carente, di qualsiasi colore sia. Se lo mettiamo a paragone coi governi ad esempio francesi, non sostiene l’italiano all’estero, non c’è un’adeguata cura degli istituti italiani di cultura, della selezione del personale che spesso è scelto in maniera casuale dai ministeri mentre invece ci dovrebbe essere una selezione fatta dall’università: abbiamo tantissimi bravi studenti laureati che si specializzano in questo e che non vengono proprio presi in considerazione. Ma questa è una delle tante cose che dovrebbero essere sistemate per il sostegno della nostra lingua all’estero, altrimenti retrocederemo.”

A tale proposito, come giudica la situazione dell’Università italiana?

“Sicuramente sono molto avvilita e non mi sento di riconoscermi in questa immagine denigratoria che i giornali continuano a dare dell’Università italiana. Abbiamo, in Italia, questa tendenza un po’masochistica di parlar male di tutto quello che facciamo; le carenza non mancano anche all’estero, dove ho avuto molte esperienze e ho visto che i problemi ci sono dovunque. I nostri problemi esistono realmente ma c’è un atteggiamento sbagliato e purtroppo penso che la Riforma Gelmini non risolva veramente i problemi, che sia un’ulteriore occasione mancata poiché non mette mano alle cose più importanti: se bisognava fare dei tagli, bisognava farli lì dove veramente ci sono sprechi. Si pensi alle tante università telematiche sorte come funghi e che assorbono soldi e non preparano veramente, università raddoppiate o triplicate in piccole sedi dove non c’è una tradizione, dove lo studente fa finta di laurearsi, o almeno alcune Facoltà in alcune sedi non sono perfettamente necessarie; tra l’altro non è vero che il moltiplicarsi di queste sedi serva ai professori perché la logica, ad esempio di Parigi, è stata quella di continuare a sviluppare la Sorbona, potenziando le sedi dove le strutture già esistevano: in questo modo i professori avrebbero avuto meno problemi. La verità è che il moltiplicarsi delle piccole sedi ha sempre significato politica clientelare. Mi pare che questa Riforma alla fine cambi ben poco, forse anche peggiorandole. Detto ciò continuo a vedere che molti dei nostri laureati sono dei laureati d’eccellenza: i cervelli scappano ma i paesi stranieri se li prendono! E questo significa che molto facilmente i nostri studenti trovano inserimento all’estero: io ho, ad esempio, un’allieva che adesso sta lavorando a Parigi poiché non è riuscita, come molti, a trovare sbocco in Italia e lì adesso si stanno ponendo il problema di come arginare tutti questi italiani che molto facilmente superano le prove, rispetto ai loro laureati. Qualche cosa di buono forse ancora la facciamo!”

Qual è un modello di università che considera efficace?

“Non saprei perché non sono così desiderosa di adeguarmi a modelli stranieri, anche perché ognuno di questi ha i propri limiti. Potrei dirle quello che secondo me modificherebbe la situazione: innanzitutto tagliare via alcuni rami veramente inutili, nati per clientelismi, poi affrontare il problema della frequenza obbligatoria in Italia; è un problema di cui nessuno parla ma è una questione che farebbe scoppiare le università italiane perché se tutti i nostri iscritti avessero l’obbligo di frequentare le nostre aule non potrebbero contenerli e dovremmo sdoppiare sia le aule stesse che la docenza. Il governo naturalmente è più disposto a tagliare!”

Questo è quello che chiederebbe se fosse una studentessa, oggi, dell’Ateneo?

“Assolutamente si! Oggi viviamo in una situazione veramente ambigua, non detta, perché l’istituzione dei crediti formativi comporta la frequenza obbligatoria: se quella frequenza manca facciamo un falso senza dirlo; tuttavia tutti tacciono perché frequenza obbligatoria significherebbe aumentare moltissimo le sedi, investire per nuove aule, nuove attrezzature. Questo è ciò di cui ha bisogno l’università italiana: tagliare lì dove la formazione avviene in maniera approssimativa e potenziare le sedi di tradizione con informatizzazione e con la frequenza obbligatoria che mette studente e docente in rapporto costante.”

Quali sono gli autori contemporanei che stima maggiormente?

“Mi piace molto Francesco Piccolo che ultimamente ha scritto un libriccino delizioso che è molto efficace; Antonio Tabucchi che è sempre stato una mia passione. Poi ci sono Niccolò Ammaniti, Gianrico Carofiglio, Stefano Benni che sono gradevoli ma non mi sembra che abbiano questo spessore fortissimo come quello di alcuni autori degli anni Cinquanta e Settanta come Anna Maria Ortese che amo moltissimo, una non napoletana che ha scritto di Napoli in maniera sublime.”

Adesso ad esempio cosa sta leggendo?

“Sto leggendo Mia suocera beve del napoletano Diego De Silva, ho cominciato proprio l’altro ieri e ancora non so bene se mi convinca o meno. Sicuramente è uno scrittore intelligente!”

E che cosa sta invece scrivendo in questo periodo?

“Sto scrivendo un libro per una collana del Mulino di cui sono anche coordinatrice: si tratta di una collana di storia della lingua italiana destinata principalmente agli studenti di laurea magistrale e chiaramente di tutti gli interessati. La collana si intitolerà Italiano: testi e generi e quindi si propone una storia dell’italiano attraverso i generi testuali: io in particolar modo sto scrivendo il libro che riguarderà la letteratura religiosa e la comunicazione al popolo, ossia tutto ciò che la Chiesa ha trasmesso di italiano quando è stata uno dei punti di diffusione principali della lingua italiana, nei secoli in cui la lingua della comunicazione quotidiana era il dialetto e l’italiano era soprattutto lingua letteraria, alta, scritta. Per molti versi negli anni soprattutto dal Concilio di Trento e gli anni che precedono l’Unità d’Italia la Chiesa è stata una grande fonte di diffusione della lingua italiana: sembra strano perché la Chiesa riformata ha proibito la traduzione della Bibbia e la lettura della Bibbia è stata limitata però ha fatto un’azione capillare di predicazione, anche nelle campagne, facendo comunque viaggiare l’italiano. Dovrei consegnarlo per primavera… speriamo di riuscirci.”

Rita Librandi in tre parole.

“Tre parole soltanto?! Direi comunque eccessivamente rigorosa, tenace e tuttavia disponibile! L’eccesso di rigore è stato sintetizzato da alcuni miei amici molti anni fa: io sono di origine calabrese ma mi chiamano la calabro-ungarica!”

Redazione - Francesca De Rosa

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