Roland Breton all'Orientale
Roland Breton all'Orientale
Il Web Magazine d'Ateneo ha documentato il seminario interdisciplinare Comunità etnolinguistiche e popoli, lingue e religioni, ospitato nella sede del dottorato in Teoria delle lingue e del linguaggio
Giovedì 19 maggio – Palazzo Giusso
Ore 11.00
I docenti invitati al seminario di studio Comunità etnolinguistiche e popoli, lingue e religioni – per un nuovo approccio interdisciplinare, con il Maestro della Geografia delle lingue, Roland Breton, si sono riuniti puntuali e a loro si sono aggiunte alcune giovanissime studiose vicine alle questioni di cui si sarebbe discusso durante la Giornata.
L'incontro è stato occasione di riflessioni e scambio di informazioni – su progetti in corso, risultati di ricerche, studi recenti – tra docenti, dottorandi e studenti dell'Orientale e non.
Il seminario è stato aperto da René Maury che, dopo una breve presentazione dell'Ospite, del quale sottolineava l'esperienza sul campo in diverse regioni del mondo, con una provocazione circa lo statuto del napoletano come “lingua” o “dialetto” ha dato il via a quella che ben presto avrebbe assunto tutti i tratti di una tavola rotonda.
Dalle parole di Cristina Vallini – che ha ripercorso le tappe fondamentali della storia dell'Ateneo, sottolineandone la vocazione culturale e linguistica (e in principio anche religiosa) voluta da Matteo Ripa, nonché la particolare attenzione al pluralismo, conservate fino ad oggi – è partito un intenso scambio di idee, opinioni, ma soprattutto di dati sulle culture e le lingue del mondo: minoritarie, franche e pidgin.
La mattinata è trascorsa veloce in una piacevole “conversazione multi-level” in cui i partecipanti esprimevano elegantemente le proprie posizioni attraverso testimonianze scientifiche da campi di ricerca differenti come linguistica, geografia, politica e antropologia.
Le testimonianze hanno confermato un dato ormai noto, e cioè che dalla Cina al Messico, dal Polo Nord alla Papua New Guinea, la questione delle lingue ufficiali e della valorizzazione e conservazione di tutte le varietà esistenti (e dunque delle rispettive culture) è sentita e studiata, a prescindere da una condizione di lingua “viva”, “morta”, o “in via d'estinzione”.
Al centro del dibattito due punti fondamentali e interconnessi: da un lato il rapporto tra lingua e potere legato non più solo al territorio ma alla presa di coscienza e alla richiesta di riconoscimento della propria identità da parte di comunità ed etnie su piccola e larga scala; dall'altro la questione delle mescolanze, delle influenze reciproche o, in alcuni casi, delle interferenze tra lingue e culture con differente status sociale nel panorama internazionale.
Gli interventi hanno trattato nello specifico la questione della three language formula dell'India che ha sancito l'uso dell'hindi, dell'inglese e di una delle 23 lingue riconosciute ufficialmente, nelle istituzioni pubbliche indiane. Un atto politico del genere però, come evidenziato anche da altri casi citati dai partecipanti come Cina, Tibet, e la stessa Europa talvolta (vedi il caso della Catalogna o dei brevetti EU), spesso causa rivolte da parte delle comunità e/o lingue escluse.
La situazione attuale delle lingue minoritarie è stata poi schizzata da Maurizio Gnerre ed esemplificata da alcune giovanissime studiose che hanno presentato i dati relativi al romancio in Svizzera, al mannese (manx) nell'isola di Man e alla varietà tedesca del Süd Tirol, dando spunto a nuove considerazioni su lingue amerindiane, basco, sami e lingue dei segni, tra le altre.
Imprescindibile in un discorso del genere il ruolo delle lingue “dominanti”, prima fra tutte l'inglese: spesso additato come “primo incomodo” – secondo una definizione estemporanea ed efficace di Jocelyn Vincent – l'inglese non è solo lingua franca, e di certo non è una “singola” lingua, definibile entro confini chiusi.
Quando due o più lingue vengono in contatto l'influenza non può essere unilaterale, e così si creano i new engleshes – oggi tra le varietà insegnate all'Orientale – o altri pidgin... Ma di certo l'ago della bilancia può pendere da una parte più che da un'altra, passando da un “minimo grado” di influenza – come in olandese o in tedesco, dove si parla oramai di Denglish, come ricorda una dottoranda che se ne occupa da vicino – ad uno “massimo”, ed è questo il caso del vastissimo numero di lingue autoctone scomparse o nascoste nelle pieghe delle società colonizzate, come sottolineano un po' tutti i presenti.
Ma l'incontro non si è limitato a mettere insieme i pezzi del grande puzzle della geografia delle lingue e della linguistica geografica: proposte concrete e segnalazioni di progetti già in corso hanno fatto da cornice a un evento pienamente riuscito proprio grazie all'approccio interdisciplinare.
L'Atlante mondiale delle lingue di Breton – presentato lo stesso pomeriggio ad un'assemblea più ampia di docenti e studenti – ha aperto, ad esempio, un confronto sui modelli di rappresentazione come cartografie, mappe di cultura, mappe di stratificazione spaziale e temporale dei toponimi: modelli già sperimentati e ricordati rispettivamente da Floriana Galluccio, che ha proposto un tanto ampio quanto opportuno intervento su questioni di stretta misura geografica, e Alberto Manco, che ha sottolineato tra l'altro la necessità di una auspicabile integrazione critica, in un Atlante, di una adeguata rappresentazione crono-stratigrafica del quadro linguistico mondiale. Discussione che ha dato il “la” ad un confronto ancora più ampio, tanto da indurre Cristina Vallini a proporre ai colleghi Galluccio e Manco di farsi organizzatori di una apposita Giornata di studio interdisciplinare che riproponga in maniera sistematica quanto si è venuto a tratteggiare oggi. Proposta accolta con favore dai due interlocutori.
La mattinata si è chiusa con un caloroso ringraziamento di R. Breton ai presenti, ai quali era grato soprattutto per avergli mostrato quanto ancora oggi è sentita ed affrontata con impegno la questione della coabitazione delle lingue e delle culture.
Ore 16.00
Ancora a Palazzo Giusso il lucidissimo ottantenne (che con orgoglio confessa di essere nato nel 1931) ha presieduto la presentazione del suo Atlante mondiale delle lingue.
Nell'introdurre il testo, R. Maury, autore della prefazione del libro, ne ha sottolineato l'importanza nell'attuale panorama geopolitico mondiale, in particolare alla luce dei recenti avvenimenti riguardanti minoranze come quelle dei curdi o dei palestinesi.
Andrea Riccio, professore di Geografia (fisica e umana) all'Università di Cassino, che ha preso la parola subito dopo, ha illustrato invece l'utilità dell'Atlante, e dei modelli rappresentativi in esso contenuti, come strumento didattico, a partire dalle quattro sezioni in cui è divisa l'opera: cartogrammi su parentela e relazione tra famiglie linguistiche; uso corretto delle lingue; geografia regionale “i territori”; tendenze attuali. Ha concluso, poi, l'intervento con un appello all'Unione Europea alla sensibilizzazione su tali temi.
Maurizio Gnerre e Cristina Vallini, professori di discipline linguistiche all'Orientale, hanno invece sottolineato rispettivamente la quantità e qualità di dati riportati nel testo – che anche dal punto di vista della praticità ha trovato una soluzione di compromesso tra dimensione e contenuti – e l'importanza delle categorie di spazio e tempo per una rappresentazione della dimensione linguistica e storico-geografica aderente alla realtà. Non sono mancati, in particolare nell'intervento della seconda, riferimenti ai padri putativi di tale approccio nel campo della linguistica, vale a dire a Ferdinand de Saussure e a Eugenio Coseriu, che a “diatopico” e “diacronico” aggiungeva “diastratico” e “diafasico”.
A conclusione del breve dibattito seguito agli interventi, e dell'evento stesso – dal quale è nuovamente emerso che bisogna riconsiderare totalmente i rapporti tra lingue, etnie e territori (come ci ricorda Maury) – Roland Breton ha voluto chiudere i suoi ringraziamenti con uno slogan a lui molto caro: «Unity in diversità!».
Valentina Russo
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