Seduta di laurea: la fine di un percorso
Seduta di laurea: la fine di un percorso
Le testimonianze a caldo di laureandi e neolaureati prima e dopo la seduta ricostruiscono la scena della prova finale
Che lo si chiami esame finale, o soltanto discussione della tesi, significa: l’ultimissimo giorno di università. Secondo alcuni è una mera formalità, per altri l’ennesima prova. Per qualcuno un traguardo, per qualcun altro una liberazione. Talvolta un punto d’arrivo, altre volte solo una tappa intermedia. Che sia laurea triennale o specialistica, il bivio è lo stesso: cosa fare una volta varcata questa soglia? Continuare gli studi? Lavorare? E, in entrambi i casi, cosa scegliere, come orientarsi? Ma tutte queste domande sono precoci: prima c’è da sedersi davanti alla commissione.
Il giorno della laurea è di quelli avulsi dalla normalità quotidiana, di quelli che tutti fotografano e mettono in cornice. Una delle intervistate, Mariana de Criscenzo, neolaureata magistrale in Lingue e Letterature Romanze e Latinoamericane ed entusiasta del biennio di specializzazione all’Orientale, parla della sua esperienza appena conclusa: “È sicuramente uno dei giorni più importanti e soddisfacenti della propria vita, il giorno in cui viene riconosciuto un impegno e che rende fieri di ciò che si è costruito”.
A prescindere dall’esito, senza dubbio si tratta di un “grande giorno”. Uno di quegli eventi che, per cultura e per tradizione, si risolvono in grandi cerimonie. E allora non c’è da stupirsi che la Cappella Pappacoda, bomboniera del quindicesimo secolo, si riempia di visitatori ben oltre la propria capienza. E che si saturi di colori e voci che si accavallano e si sovrappongono, mentre parenti e amici si danno il cambio nelle prime file, per assistere da vicino all’esibizione dei propri cari: quindici minuti concentratissimi e, per questo, imperdibili. Parenti e amici che, in grande maggioranza, non riescono però a seguire la discussione in lingua – l’arabo? Il cinese? Il tedesco? E chi li capisce? – e, con le dovute eccezioni, hanno difficoltà ad inquadrare i contenuti, anche se esposti in italiano. Parenti e amici che, tuttavia, ogni anno accorrono più numerosi: mamma, papà, zii, zie, fratelli e sorelle, nipotini, cugini, fidanzati, genitori dei fidanzati, fratelli e sorelle dei fidanzati, migliori amici, amici e conoscenti, colleghi, e, perché no, c’è anche qualche cagnolino domestico venuto ad ascoltare. Tutti orgogliosi ed emozionati. Il fotografo ufficiale conferisce ulteriore solennità all’evento, mentre fotografi e cameraman estemporanei preferiscono il fai-da-te e aggiungono decine di altri flash all’illuminazione della sala. Anche l’abito è da cerimonia, per quello che il gusto personale suggerisce in occasioni simili: le ragazze, in media, sembrano tenerci di più, e sfoggiano tailleur in tinta, tacchi alti, pettinature fresche di parrucchiere, e non di rado un bel po’ di trucco ben marcato. Anche l’estetica ha il suo valore. I ragazzi, invece, variano dal formalissimo al quasi troppo informale, e alternano cravatte e gelatina a piercing e doppi tagli. E per gli uni o per gli altri qualche docente e qualche spettatore storceranno la bocca. Dall’inizio della prima discussione fino alla fine dell’ultima, la cappella diventa inaccessibile per i ritardatari, che devono cogliere l’attimo per trovare un fugace varco attraverso la porta della chiesetta. Oltrepassato l’ingresso, non è detto poi che si riesca a sentire la voce del laureando o della laureanda: il microfono a volte non basta a superare il brusio dei presenti.
Ma dietro questa cornice pittoresca – divertente e bizzarra appendice acustico-cromatica – non va dimenticata l’importanza dell’evento, sia simbolica che fattuale, sia personale che ufficiale. Docenti e studenti la onorano con serietà e impegno. Se il frangente immediatamente successivo alla proclamazione è comprensibilmente festoso e gioioso, invece i minuti immediatamente precedenti la discussione sono fatti di tensione e impazienza, quando i più zelanti e puntuali cominciano, in un silenzio carico d’attesa, a riempire la piazza antistante la cappella e a popolare le prime panchine all’interno. Le interviste, raccolte in occasione delle sedute di fine febbraio, hanno catturato entrambe le situazioni, al di qua e al di là del quarto d’ora decisivo. Michele Russo, laurea triennae in Lingue, Letterature e Culture dell’Europa e delle Americhe, riassume un sentimento piuttosto comune rispetto alla “sedia del laureando”, prima, durante e dopo il momento in cui ci si siede davanti alla commissione: “Prima di sedermi non sapevo cosa provare, né cosa provavo. Ero vagamente emozionato, senza piena cognizione. Quando mi sono seduto, mi accorgevo di non riuscire a dire tutto quello che volevo, sia per l’emozione che per la mancanza di tempo a disposizione. Una volta fuori, la sensazione è liberatoria, catartica. Mi resta però quel piccolo rammarico per non aver detto tutto quello che avrei voluto”.
Interrogando gli intervistati sull’intera esperienza universitaria, un certo numero di essi ha lamentato in primis le disfunzioni amministrative e organizzative dell’ateneo. Probabilmente, una rapida carrellata fra le maggiori università del nostro paese aiuterebbe a riscontrare come simili problemi siano comuni ad altre istituzioni accademiche italiane: caratteri generici, endemici forse all’università in quanto servizio rivolto a un pubblico massivo. Commenti critici più specifici hanno poi riguardato l’offerta didattica – secondo questi studenti, talvolta troppo orientata sull’uno o sull’altro aspetto, se non altro diverso dalle aspettative personali – e i tirocini. In particolare, sia per i corsi che per i tirocini, il motivo della critica è la comune sensazione che siano troppo distanti dall’effettiva realtà concreta del mondo del lavoro, oltre che dalle esigenze degli studenti rispetto ai contenuti e alle forme d’apprendimento. Valga il commento di Elisa Palombo, ex studentessa dell’Orientale, ora alla Federico II per il biennio di magistrale: “Se devo fare un appunto, trovo che i tirocini siano organizzati male, assolutamente inadatti a preparare al mondo del lavoro, o anche solo a darne un assaggio. A conti fatti, però, la mia esperienza all’Orientale è stata positiva. Per la magistrale mi sono iscritta alla Federico II perché non ho superato il test d’ingresso all’Orientale, e non volevo aspettare un anno. Disponendo di un termine di paragone, devo dire che all’Orientale i docenti sono molto preparati e anche esigenti, e di conseguenza anche gli studenti ricevono una formazione migliore”. È interessante notare come il senno di poi e il beneficio di un confronto addolciscano lo spirito critico e inducano ad apprezzare il livello dell’insegnamento dei docenti dell’Orientale e della conseguente preparazione media ricevuta dagli studenti.
Nel complesso, molto positive sono state anche le risposte alla domanda sulle modalità del lavoro di ricerca e di stesura della tesi: quasi tutti i laureandi e neolaureati hanno espresso soddisfazione per un lavoro autonomo e allo stesso tempo ben guidato dai relatori, con competenza, disponibilità e preparazione. Qualcuno si compiace di aver avuto più spazio della media, durante la seduta, per presentare e discutere i contenuti del proprio lavoro. È giusto che la fase conclusiva che porta all’esame finale sia un epilogo gratificante per lo studente, con la possibilità di dare spazio alle proprie forze e alle proprie capacità, e di ideare e realizzare un progetto personale, anche con l’aiuto e la guida di un docente esperto. O addirittura con il privilegio di svolgere parte della ricerca all’estero, come nel caso di Elena Gugliucciello: “Il mio lavoro di tesi è stato molto interessante, ho avuto la fortuna di realizzarlo, in parte, in Francia, grazie al progetto Erasmus. Il professore che mi ha seguito dall’Orientale di Napoli è stato molto disponibile e preparato, e mi ha lasciato anche autonomia”.
Dopo la proclamazione, è legittimo che il primo sentimento sia un senso di leggerezza, e di fierezza per aver centrato un importante obiettivo. Un “finale aperto” però, come un libro o un film che si concluda con una domanda - in fondo, la domanda più comune: e adesso, cosa farò? Lo spauracchio del mondo del lavoro, la prospettiva della “vita vera”, con cui confrontarsi ormai senza lo scudo ultraventennale della formazione scolastica e accademica. Che, per quanto impegnativa, impone solo sequenze di responsabilità parziali, e già prefissate, e piccoli ostacoli disposti ordinatamente in serie. Terminata la trafila, si spalanca un orizzonte che non è nemmeno un bivio, ma un incrocio di innumerevoli possibilità. E, soprattutto, si profila la necessità di una responsabilità piena sulla propria vita, condita dal timore che il mondo del lavoro sia “difficile”, “duro” o “spietato”, come lo descrivono gli stessi intervistati. Per loro fortuna, la maggior parte di essi ha appena concluso il triennio, e ha ancora due anni da trascorrere “al sicuro” all’università.
Lorenzo Licciardi
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