Studi italiani sull'Africa: tre giornate di studio
Studi italiani sull'Africa: tre giornate di studio
Al Palazzo del Mediterraneo dal 30 settembre al 2 ottobre la Conferenza nazionale di Studi africanistici per celebrare i 50 anni d'indipendenza del continente nero
Parte giovedì 30 settembre la conferenza nazionale di studi africanistici intitolata Studi italiani sull'Africa a 50 anni dall'Indipendenza. Tre giornate di studio in cui 200 relatori di diverse discipline provenienti da tutte le università italiane si daranno appuntamento al Palazzo del Mediterraneo per fare il punto sullo stato dell'arte degli studi sull'Africa in Italia. I temi dei 33 panel (il programma è disponibile qui) spaziano dall'arte alla letteratura africana, a tematiche sociali, politiche e antropologiche: un bel modo per celebrare, senza retorica, il cinquantenario della liberazione del continente dal colonialismo. Abbiamo incontrato la professoressa Maria Cristina Ercolessi, componente del Comitato scientifico della Conferenza, per rivolgere alcune domande sul senso degli studi di africanistica in Italia. La conferenza che si apre il 30 settembre si pone come obiettivo di fare il punto della situazione sullo stato dell'arte degli studi italiani sull'Africa.
In che misura l'Orientale è un punto di riferimento in tali studi?
"Non direi che l’Orientale sia, in assoluto, il punto di riferimento negli studi di africanistica: ci sono attivissimi centri di studi sull’Africa anche a Bologna, Siena, Torino. Certamente l’Orientale è sembrata la sede più naturale per una conferenza di questo tipo vista la lunga tradizione di studi storico-sociali, in particolare, sul corno d’Africa. D'altra parte va rilevato che il nostro è l’unico ateneo italiano dove sia stato attivato un dottorato specificamente dedicato all’Africanistica, e che fino a poco tempo fa era l’unico dove si insegnassero le lingue africane: solo da poco è stato attivato un corso di swahili anche all’Università della Calabria, tra l’altro tenuto da una docente formatasi all’Orientale."
Cosa significa studiare l'Africa in Italia?
"L’Italia ha omesso una vera riflessione storica e culturale sulla propria esperienza coloniale in Africa. Da noi l’Africa è ancora percepita secondo lo stereotipo di un continente segnato da fame, povertà, guerre e corruzione e ciò ci impedisce di vedere la grande vitalità di un continente composto soprattutto di giovani che, confrontandosi con la globalizzazione, esprimono cultura, arte, musica, esperienze politiche. Uno degli obiettivi di questa conferenza nazionale è proprio mettere in luce tale vitalità e molti interventi saranno dedicati all’indagine sulla letteratura e l’arte africana contemporanee."
Quanto è sentita all'Orientale la necessità di un confronto con esponenti del mondo della cultura africano? Quali sono gli strumenti attualmente messi a disposizione degli studiosi di africanistica dal nostro ateneo?
"Ovviamente tale confronto è ritenuto indispensabile. Molti dei nostri docenti sono africani o di origine africana, noi stessi compiamo frequenti viaggi di studio in Africa e così i nostri dottorandi. Un po’ più complicato è l’arrivo di studenti africani per problematiche legate all’ottenimento del visto. La Summer School di Procida, appena conclusasi, credo costituisca uno strumento più che valido per tastare il polso delle ricerche in corso in ambito africanista. E non bisogna dimenticare la partecipazione dell’Orientale ad importanti iniziative nazionali come la Summer School europea AEGIS (Gruppo per gli Studi Interdisciplinari Africa-Europa) che, con cadenza biennale, si tiene a Cortona (l’ultima edizione, la IV, è dello scorso giugno) e che riunisce gli studiosi di africanistica di tutta Europa. Di solito si oppone un occidente razionalistico a un'Africa spiritualista e si giudica l'occidente come non in grado di comprendere la cultura africana."
Lei avverte mai la tentazione di dare una lettura 'occidentale' ai problemi africani?
"C’è un doppio pericolo: quello di dare una lettura occidentale alle problematiche africane e quello, opposto ma non meno insidioso, di sospendere ogni approfondimento giudicando impossibile per un occidentale comprendere i nodi di una cultura lontana dalla nostra. Innanzitutto devo dire che la cultura africana mi pare più vicina alla nostra di quella svedese o statunitense, per restare in ambito occidentale. Non credo, nello specifico, nella dicotomia razionalità occidentale-spiritualità africana. In secondo luogo credo che se l’approccio dello studioso è corretto, se, cioè, egli studia ‘senza giudicare’ la cultura africana come un qualsiasi altro fenomeno, allora non vedo alcun problema: compito dello studioso è, ripeto, analizzare senza giudicare. Se fornito degli opportuni strumenti, un africano può studiare e comprendere fenomeni culturali occidentali e viceversa. Personalmente considero un luogo comune un po’ datato quello che impedirebbe ad un occidentale di capire la cultura africana."
Quindi non è così difficile per gli occidentali accostarsi obbiettivamente a fenomeni come la stregoneria o lo sciamanesimo?
"Stregoneria e sciamanesimo sono, appunto, stereotipi e luoghi comuni con cui si banalizza il complesso mondo spirituale africano. Alla religione e alla spiritualità africana sono dedicati, non a caso, alcuni importanti contributi di queste giornate di studio che mirano ad aggiustare il tiro su tante errate convinzioni."
Ancora, è davvero così politicamente scorretto giudicare sbagliata un'organizzazione familiare dove la donna si occupa dei lavori domestici, dell'accudimento della numerosa prole mentre gli uomini, a causa della disoccupazione, non contribuiscono neppure finanziariamente alla vita della famiglia?
"Qui mi si chiede di giudicare, mentre devo ribadire che il mio compito, da studiosa, è di analizzare. Certamente posso dire che non è corretto giustificare un fenomeno solo in quanto appartenente ad un'altra cultura. Trent'anni fa esisteva ancora in Sicilia il delitto d'onore e faceva assolutamente parte di quella cultura, ciò non significa che sia stato giudicato ammissibile. Nello specifico non direi che è giusto che le donne africane siano sottomesse perché quella è la loro cultura, ma sicuramente il moto di ribellione deve partire da loro stesse e non può essere imposto dall'esterno. La Conferenza s'intitola "Studi italiani sull'Africa a 50 anni dall'indipendenza". Negli anni sessanta del secolo scorso la maggior parte degli Stati africani ha ottenuto l'indipendenza politica o si avviava a ottenerla. Quello che appare ora evidente è che dopo la decolonizzazione politica, gli stati africani devono avviarsi ad una decolonizzazione economica dall'occidente. Devono cioè cessare di dipendere dall'occidente e cercare nella propria cultura e nelle proprie risorse la via dello sviluppo."
In che misura l'occidente cerca di favorire questo sviluppo autonomo?
"Si tratta di un discorso lungo e molto complesso, non a caso abbiamo dedicato tre giornate a questo tema. Ma sicuramente, come dicevo prima, l'occidente non può imporre alcunché dall'esterno. Gli Africani devono costruire da soli la propria via di sviluppo, quello che possono fare i governi occidentali o le ONG è solo creare un terreno favorevole affinché chi ha voglia di raggiungere certi obiettivi di sviluppo possa farlo. Sempre a proposito di decolonizzazione e nuovi colonialismi. Negli ultimi anni è emerso il "problema Cina": gli investimenti cinesi in Africa stanno soppiantando quelli occidentali."
In che modo i governi europei stanno cercando di reagire a questo stato di cose?
"Non parlerei di un "problema Cina". La Cina non è un problema per l'Africa, né una soluzione. La politica cinese in Africa è di tipo neocoloniale: investimenti in cambio delle risorse locali. I gruppi politici africani, per ora, trovano conveniente favorire i Cinesi che offrono denaro sonante senza imporre condizioni e lasciando un certo margine di manovra per alleanze economiche anche con l'occidente. Quella fra governi africani e investitori cinesi è, in definitiva, un'alleanza di tipo opportunistico: entrambi i soggetti hanno le loro convenienze e gli scambi continueranno solo fino a che converrà ad entrambi. E non sono sicura che le cose andranno avanti ancora per molto: la Cina si sta rivelando incapace di gestire le molte difficoltà con le pur deboli organizzazioni sindacali locali, e non va dimenticato che se da un lato gli investimenti cinesi creano molti posti di lavoro, dall'altro l'importazione di tessuti cinesi a basso costo ha messo in crisi l'industria tessile locale."
C'è dunque qualcosa che stiamo imparando dalla Cina e della Cina attraverso l'Africa, e ci voleva la Cina per capire meglio qualcosa dell'Africa?
"Non direi, la Cina si sta comportando in Africa esattamente come hanno fatto gli Stati occidentali nel periodo coloniale: niente di buono, insomma. Gli investitori cinesi stipulano senza problemi alleanze economiche con regimi dittatoriali, mentre i leader politici occidentali dovrebbero nasconderle o giustificarle in qualche modo alla loro opinione pubblica. Certamente nel passato l'occidente ha seguito la stessa politica degli attuali investitori cinesi, o anche peggiore, ma adesso stiamo cercando di riparare ai nostri errori o, almeno, stiamo cercando di non commetterli più."
Concetta Carotenuto
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