Tra scuoglie e nuvole: le suggestioni regalate da Antonio Calabrese
Tra scuoglie e nuvole: le suggestioni regalate da Antonio Calabrese
Presentata la raccolta di poesie illustrate dall'autore e commentate da Domenico Silvestri
La presentazione del volume “Tra scuoglie e nuvole” di Antonio Calabrese (Grimaldi & C. Editori), tenutasi a Palazzo Du Mesnil giovedì 1 marzo, si è aperta con i saluti del Rettore Lida Viganoni a una molto nutrita platea. A commentare i componimenti è stato Domenico Silvestri che - ha detto il Rettore - “qui all'Orientale è di casa”. La parola è poi passata a Gilberto Marselli, ordinario all'Università Federico II alla cattedra di Sociologia, che ha presentato l'autore evidenziandone il profondo legame - evidente nella sua poesia - con la sua cultura originaria, quella partenopea. Marselli ha poi elogiato il poeta in particolare per “l'ammirevole uso non solo del dialetto napoletano ma anche - più in generale - delle parole, un uso che si potrebbe definire abile e partecipato”: le parole di Calabrese appaiono infatti - agli occhi del sociologo - ambivalenti perché lievi e indistruttibili, eteree ma allo stesso tempo dure come la roccia. L'iniziativa ha poi preso corpo attraverso la lettura, appassionata e impetuosa, di Giovanna Calabrò, ordinario di Letteratura spagnola presso l'Università Suor Orsola Benincasa, che ha scelto alcune delle poesie di Calabrese: Nun smovere 'e ricorde, Se vede e nun se vede, L'ha cusuto 'o ragno, ma anche 'O viento 'e mare, Mierulo niro, 'A tana d'o marvizzo. Moltissime le immagini rievocate alla mente dei presenti - soprattutto se napoletani - che, come chiamati in causa, sono riusciti a compenetrarsi in pieno nelle parole del poeta. Al termine della lettura l'autore stesso della raccolta - poeta ma anche ingegnere, come è stato precisato più volte nel corso dell'incontro - ha cercato di scardinare le verità della sua scrittura e di ripercorrere attraverso la memoria le tappe fondamentali della sua educazione poetica. “La mia non è poesia dialettale ma poesia in dialetto” ha affermato Calabrese, i cui componimenti sono sempre fortemente intrisi di una terminologia di tipo popolare: “il dialetto per me, come per molti altri, è una lingua straniera e per questo l'ho usato come uno scudo protettivo”, un tentativo di non mettersi completamente a nudo insomma, “ma quando Domenico Silvestri ha letto le mie poesie - ha continuato l'autore - ha intrapreso un'analisi così acuta e attenta che mi sono sentito stanato. Mi ha tirato fuori dal mio nascondiglio”. C'è poi un filo conduttore in Calabrese, rintracciabile già a partire da Cocciole (1989) e A piede scauze (1998), sicuramente tematico ma anche lessicale. L'amore innanzitutto e poi tutte le figure che gli gravitano intorno: marinai, pescatori e chiaramente il mare in generale, il cielo stesso e la terra pure diventano elementi fissi del suo immaginario, da cui sembra sia assolutamente impossibile prescindere. Un “discorso amoroso”, come è stato appunto definito quello di Calabrese, analizzato da Silvestri con queste parole in cui il professore cita il poeta Clemente Rebora: “«Del male è il bene più forte». Questo è il messaggio a cui Antonio Calabrese ha ispirato tutta la sua vita e tutta la sua opera poetica. Per me, in questi brevissimi versi, c'è la finestra miracolosa e certissima che ci riconsegna alla religiosità dell'infanzia. Anche noi con Uocchie ncantate ci affacciamo, di nuovo fiduciosi, sulla mobilità del mondo (tali sono gli uccelli in volo, le vaganti vele, le mutevoli nuvole...e, soprattutto, le irrinunciabili speranze!)”.
Francesca De Rosa
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