XXXV Convegno della Società Italiana di Glottologia: intervista a Diego Poli
XXXV Convegno della Società Italiana di Glottologia: intervista a Diego Poli
"Un auspicio per l'Università italiana? Fede nella ricerca e nella didattica"
Professore Diego Poli, che cos'è la linguistica?
“Dare una definizione unica è difficile, perché oramai la linguistica ha in Italia e soprattutto all’estero tanti e tanti interessi che spesso sono molto divergenti tra loro. Se dovessimo, però, dare una definizione che possa un po’ accontentare tutti – forse non accontenta nessuno, ma non scontenta nemmeno – potrebbe essere: la scienza che studia la produzione più propriamente umana, cioè la lingua. La lingua è la produzione che rende l’uomo tale, e lo classifica all’interno della natura. Mi rendo conto che non è una definizione precisa, ma mette in chiaro l’importanza della disciplina e fa anche capire quanto sia ampio lo spettro d’analisi e di applicazione della linguistica.”
Che cosa consiglierebbe di leggere a un giovane linguista?
“Direi che potrebbe iniziare con una storia della linguistica, un libro che si occupi dei vari problemi che hanno interessato nel tempo i vari studiosi che si sono occupati del linguaggio e della lingua. A cominciare dal passato – e potrei citare Platone, Aristotele, Varrone – e dal medioevo, per cui si possono anche citare nomi che a prima vista potrebbero non sembrare linguisti come per esempio Dante Alighieri, al Settecento, e si possono citare nomi di linguisti che noi studiamo per altre ragioni a scuola, e che invece sono stati grandi interpreti della lingua, come alcuni letterati, tra cui Leopardi.
A scuola non studiamo Leopardi come linguista ma come poeta, e potrebbe essere una sorpresa scoprire che è stato anche un grande interprete del problema del linguaggio. E poi, per venire all’Ottocento, nomi di grandi romantici, prima, e di grandi positivisti dopo, che sono stati linguisti. Fino al Novecento, in cui abbiamo un’abbondanza tale di scuole di linguistica che spesso si occupano anche di problemi – penso per esempio a Jakobson – riguardanti l’interpretazione in genere, l'estetica, oppure la letteratura, e per finire a Chomsky, il quale ha una carriera così articolata nel campo linguistico che spesso è difficile quasi riconoscere che siano della stessa mano le opere giovanili e le opere della sua maturità.
Consiglierei, quindi, ad un giovane che voglia occuparsi di queste cose di darsi un orientamento in modo da capire come la linguistica sia strettamente connessa a tutta una serie di problemi che in precedenza non aveva mai giudicato poter appartenere al mondo della linguistica.”
Che spazio trova la linguistica nella sua università e nel contesto italiano?
“Questa è una buona domanda, anche perché in questo momento l’università sta attraversando grandi difficoltà, anche interpretative rispetto al proprio ruolo. Diciamo che, per quanto riguarda l’università in cui insegno, è talmente piccola nel panorama generale italiano che la nostra esperienza può dire poco. Posso dire, però, che pur essendo un’università piccola ha cercato, fino al recente passato, di qualificare questi studi sia investendo nell’arricchimento della biblioteca – che è il centro di ricerca per eccellenza, e che resterà tale ancora a lungo, nonostante tutte le strumentazioni più moderne ed elettroniche che ci possono essere – sia investendo in una specializzazione molto parcellizzata dell’insegnamento linguistico: abbiamo docenti che si occupano di fonetica e di fonetica articolatoria sperimentata in laboratorio; di glottodidattica e di insegnamento delle lingue e dell’italiano come L2; di storia delle lingue orientali ed occidentali; docenti che si occupano di teoria del linguaggio. Devo dire che, fino al recente passato, siamo riusciti a svilupparci.
Ma se mi chiedesse «In futuro vi svilupperete ancora?», ahimé, credo di non poter dare una risposta positiva.
E, detto questo, verrei alla situazione italiana in genere. Una situazione che vedo estremamente precaria, un momento di transito che non ha e non avrà, purtroppo, un futuro molto roseo – stando le cose così come le abbiamo viste svilupparsi negli ultimi mesi. Su questo voglio essere molto chiaro e voglio esprimere subito la mia posizione.
In genere, l’Italia, in passato è riuscita ad avere delle facoltà – e non soltanto quelle più propriamente linguistiche come Lingue, Lettere, Filosofia, Comunicazione, Formazione, ecc., ma anche in altre aree più scientifiche, come in ambito psicologico, medico, per fare un esempio, il San Raffaele di Milano – in cui la linguistica ha avuto un suo peso e la sua rappresentatività.
Direi che, nel complesso, il nostro settore ha lavorato molto bene all’interno del mondo accademico italiano.
Quale futuro ci aspetta? Temo che la risposta che riguarderà la linguistica sarà una risposta che toccherà tante altre discipline – italianistica compresa, e siamo in Italia! – che non hanno un'immediata ricaduta sul mercato e non producono brevetti come invece possono fare le discipline scientifiche. È chiaro che ci ritroveremo in gravissime difficoltà qualora la legge dovesse passare così com’è stata finora prospettata. Questa è una mia sensazione molto forte che nasce ovviamente dall'esperienza che ho avuto, che ho e che sto scambiando con i colleghi. Quello che mi dispiace è che ambienti anche sensibili della politica italiana, sensibili in altri momenti, ora sembrano non avvertire il grido di dolore che si sta sollevando non soltanto dagli studenti e non soltanto dai ricercatori, ma direi da tutto il comparto universitario.”
Tornando al Convegno della Società Italiana di Glottologia. Lei ne è stato presidente per il biennio 2001-2002. Qual è il ruolo della Società nel panorama degli studi di glottologia e linguistica?
“La società è nata negli anni Settanta per iniziativa di un gruppo di giovani studiosi – molti dei quali oggi scomparsi – che all'epoca avevano un ruolo importante non solo nel mondo accademico italiano, ma direi addirittura internazionale.
La società, quindi, è nata sotto gli auspici di una rifondazione degli studi linguistico-glottologici in ambito nazionale: nel mondo della ricerca universitaria, nel mondo accademico in generale, e in quelli che sono i luoghi deputati alla diffusione di argomenti di tipo linguistico. La Società Italiana di Glottologia ha sempre cercato di svolgere questo ruolo che negli ultimi anni ha esercitato anche presso alcuni organismi universitari nazionali, come il Consiglio Universitario Nazionale, l'organo che per legge assiste il Ministro nella riorganizzazione e programmazione del mondo universitario. Quando si sono toccate argomentazioni che riguardavano le discipline linguistiche, la Società o è stata direttamente interpellata o ha comunque presentato le proprie istante al CUN in modo che fossero portate al Ministro.
Da questo punto di vista, è proprio grazie ai vari presidenti che si sono succeduti nel corso degli anni che è stato possibile realizzare questa stretta connessione con gli organismi istituzionali.
In questi ultimissimi momenti di programmazione universitaria in cui, purtroppo, non c'è stato più stato un colloquio tra il Ministro e gli universitari, è chiaro che la società è venuta meno in questa funzione assolutamente necessaria per la comprensione dei problemi dell'università da parte delle amministrazioni e delle autorità. Da parte nostra, però, la disponibilità a un colloquio, a un chiarimento e all'aiuto è totale, perché si possa venire ad un rifacimento di alcuni luoghi della legge proposta che possano venire a favore degli atenei e non contro gli atenei.
Devo anche dire cha la Società si è rivolta anche ai giovani studiosi che hanno intenzione di continuare ad approfondire questi argomenti a livello più professionale. Una di queste iniziative, per esempio, ha portato alla creazione, venti anni fa, di una scuola estiva molto intensa della durata di una settimana – inizialmente organizzata a Pisa e che oramai da molti anni si tiene a Udine, San Daniele de Friuli – che ha riscosso grande successo presso il pubblico degli studenti e degli studiosi che si avvicinano a questa scienza.
Abbiamo questo forte interesse per la diffusione delle nostre discipline – e mi rifaccio alla definizione che ho dato di linguistica – ritenendo che siano discipline assolutamente fondanti qualunque impostazione si voglia dare allo studio della società, dell'antropologia e della storicità del nostro mondo. Senza le riflessioni su quelle che sono le problematiche linguistiche, effettivamente non riusciamo a cogliere il vero spirito delle singole società, società che comunque variano nello spazio e nel tempo e a cui possiamo giungere attraverso la comprensione della loro lingua e del modo di vedere il mondo attraverso la lingua.”
Il titolo della relazione che terrà al Convegno di quest’anno è Dall’ovvietà alla congetturalità: le strategie etimologiche come percorsi cognitivi del latino. Qualche anticipazione?
“Il latino è servito al nostro mondo occidentale e alla nostra cultura come metalinguaggio per capire sé stessi. Il latino veniva studiato – già nel tardo mondo antico, poi nel medioevo, nell'età moderna, nel rinascimento e fino a tutto il '700 e parte dell'800 – non soltanto perché lingua di una grande letteratura e di un grande mondo storico del passato, ma perché attraverso di esso si riusciva a comprendere meglio capire meglio la realtà della propria identità e ci si poteva relazionare a tutto il resto del mondo occidentale che aveva interessi scientifici. Faccio due esempi: Bacone, in Inghilterra, tra il tardo Cinquecento e gli inizi del Seicento, e poco più tardi Newton, sempre in Inghilterra, nel secondo Seicento, scrivono i loro testi in latino perché per essi rappresenta il metalinguaggio con cui avvicinarsi agli stessi argomenti della scienza che loro vogliono spiegare a se stessi e agli altri. Da questo punto di vista, il latino è lo strumento di connessione, di riconoscimento, di miglioramento.
Allora se partiamo dal latino come lingua e pensiamo al latino come etimologia – e visto il ruolo che le etimologie hanno avuto nella storia dell'occidente, ovverosia come riconoscimento di realtà che solo attraverso la lingua possiamo afferrare e che altrimenti non potremmo cogliere – ecco che il latino diventa lo strumento dell'etimologia per eccellenza, lo strumento attraverso il quale riusciamo a superare quella che è la parvenza, la manifestazione, l'ovvietà appunto, e possiamo iniziare dei percorsi che sono percorsi di conoscenza e di miglioramento delle proprie capacità e delle proprie conoscenze scientifiche.
L'etimologia viene vista come una sonda per analizzare sé stessi, analizzare la propria lingua e, attraverso quest'analisi, cercare di migliorare la società in cui ci si trova ad operare.”
Che applicazione potrebbe trovare la linguistica e che cosa non si fa per favorirne una migliore conoscenza?
“La linguistica può avere tantissime applicazioni anche in campi apparentemente molto lontani della lingua. Ad esempio, nel campo dell'ingegneria della voce, che permette di immaginare un rapporto tra noi e l'ambiente in cui viviamo che possa essere mediato non dai pulsanti, come si fa oggi, ma dal suono della propria voce che grazie all'impronta in essa è contenuta – una sorta d’impronta digitale, assolutamente non falsificabile – che potrebbe rappresentare un modello esemplare di comando; per un sistema d'allarme, tanto per fare un esempio, e per altri strumenti elettronici. Potremmo, già qui, lavorare in campi che sono molto diversi da quelli tradizionali che possono toccare il testo letterario oppure il dialetto, argomenti su cui abbiamo lavorato fino ad ora. Un altro campo potrebbe evidentemente essere quello della medicina: in campo medico, infatti, ci sono tanti problemi riguardanti la lingua – non voglio parlare soltanto delle afasie che sono piuttosto momenti di disfacimento della lingua – come la logopedia, la balbuzie, i cosiddetti difetti di pronuncia, in cui il linguista potrebbe essere di grande aiuto. E ancora, rispetto all'impostazione della voce nel campo della retorica delle vendite; un ambito davvero poco curato in Europa, ma che in America ha un grande seguito. I grandi venditori che operano attraverso la televisione, ad esempio, seguono dei corsi particolari per impostare la propria voce, per imparare a controllare le proprie corde vocali, correggere i propri difetti e assumere, per così dire, un atteggiamento simpatico che possa risultare convincente e invogliare gli eventuali clienti. Esiste, quindi, tutta una serie di possibilità anche applicative della linguistica che vanno molto aldilà di quelli che sono stati i campi tradizionali nei quali ci muoviamo.
Rispetto alla seconda parte della domanda, e a ciò che si potrebbe fare di più per la linguistica, dovremmo innanzitutto farla conoscere di più. Questo è un dato di fatto.
Mediamente, l'italiano, quando gli si parla di linguistica interpreta il termine come conoscenza delle lingue e la prima reazione dell'ascoltatore quando ci si qualifica come linguista – succede a me, ma sicuramente è capitato anche a molti dei miei colleghi – è: «Quante lingue conosci, allora?».
Bisognerebbe far capire che il linguista non è un traduttore, non è un interprete, senza togliere ovviamente nulla alla difficoltà di questi ambiti e dei rispettivi lavori. Non è questo il nostro lavoro, noi non siamo traduttori ma interpreti del funzionamento del linguaggio e, quindi, cerchiamo – mi rifaccio a quanto detto poco fa – di trovare nuove applicazioni al servizio del linguaggio.
Una delle prime cose, quindi, è far capire alla gente, ma addirittura talvolta anche ad alcuni colleghi delle altre facoltà, quanto è importante lo studio della linguistica. Basti pensare alla giurisprudenza che è strettamente legata alla retorica e che, a sua volta, è strettamente legata alla linguistica. Si potrebbe far capire anche al giurista, ad esempio, quanto potrebbe guadagnare da una conoscenza più approfondita dei sistemi di lingua attraverso i quali opera e, se fosse un giudice, attraverso i quali scrive sentenze. È importante far capire anche a questi colleghi quanto per loro sia importante lo studio della lingua.
Voglio chiudere appunto citando un docente di matematica molto noto, anche perché scrive spesso su giornali qualificati italiani, il quale di recente ha pubblicato sul Corriere della Sera un messaggio che era una sorta di allarme, in cui spiegava che i suoi studenti di matematica della Sapienza di Roma hanno problemi nel comprendere la materia, ma non perché non abbiano studiato o perché non siano capaci, piuttosto perché mancano gli strumenti linguistici adeguati a comprenderla.
Un matematico, quindi, che si pone problemi di didattica della materia e la cui risposta è stata: «gli studenti dovrebbero conoscere meglio il funzionamento del linguaggio». Ecco, se consideriamo che anche la matematica è un linguaggio logico, il professore ha perfettamente ragione perché ci sono punti di aggancio tra la materia e la linguistica.
Sarebbe bello, un domani, vedere una collaborazione anche con campi che sono apparentemente molto distanti, ma che in effetti si qualificano all'interno di una stessa epistemologica nata su fondamenti comuni, quali appunto la logica, la retorica e la grammatica stessa.”
A suo avviso, quindi, la linguistica andrebbe insegnata anche nelle scuole superiori?
“Certamente sì. La ringrazio per questa domanda perché è un tema davvero importante. La linguistica va insegnata nelle scuole – ovviamente in una forma adatta per quel genere di scuole e quella fascia d'età – perché è assolutamente fondamentale nella formazione di un allievo. Devo dire in proposito – ed è una cosa molto bella – che alcuni professori, per così dire quasi di sottobanco, insegnano alcuni principi di linguistica e applicano nell'insegnamento che impartiscono ai loro allievi di scuola superiore alcune delle nozioni che hanno appreso all'università e dalle quali sono stati positivamente colpiti, arrivando a comprendere quanto sia importante diffondere nell'ambito della cultura e dell’educazione delle scuole superiori alcuni principi di linguistica. La linguistica, ribadisco, è assolutamente importante.
E, anche quando a breve ripartiranno i corsi di specializzazione per i futuri degli insegnanti delle scuole, io auspico che venga impartita una forte dose di insegnamenti di linguistica ai futuri docenti, perché un'insegnante – non solo di materie letterarie ma anche scientifiche – che non abbia una conoscenza almeno minima dei principi della linguistica e della possibilità di applicazione di questi principi, non riuscirà a raggiungere quelle capacità e quelle competenze che invece sarebbero auspicabili nella nostra epoca. Quindi sono pienamente d'accordo su questa posizione, perché ritengo veramente che porterebbe grandi vantaggi nelle nostre scuole.”
Che cosa è cambiato nello studio della linguistica da quando lei ha cominciato a fare ricerca?
“È cambiato tanto, davvero tanto. Innanzitutto c'è una maggiore pluralità di interessi ed è importante sottolinearlo. Soprattutto, però, in questi ultimi anni, questa pluralità – anche se poi ovviamente e umanamente ognuno di noi può prediligere un campo o un altro – non ha portato a scontri tra scuole, ma viceversa direi che gli scontri sono notevolmente diminuiti per arrivare invece ad una forte fase di collaborazione tra diverse scuole e diverse squadre operative.
È cambiato molto perché negli ultimi anni la linguistica – come dicevo anche prima – ha cominciato ad essere applicata anche in diversi campi. Di recente, per esempio, è nata la già citata ingegneria linguistica, è nata la linguistica informatica, la linguistica giuridica, e sono nate delle linguistiche settoriali che sono molto specializzate in certi ambiti ma che possono anche dare non soltanto una maggiore conoscenza ai cultori di quegli ambiti, quanto una maggiore professionalità e anche capacità d'impiego ai nostri allievi.
È una disciplina che non guarda più soltanto al mondo della scuola – all'insegnamento e alle necessità che sono ad esso connesse – ma anche al mondo del lavoro e alle possibilità che si possono avere per relazionarsi con le nuove necessità di questa società.
Infine, devo dire anche che in questi ultimi venti/trenta anni, l'apertura all'Europa e al mondo ha aiutato molto la nostra linguistica a guardare a quello che è stato fatto al di fuori del nostro paese e ha portato molti di noi a lavorare nelle università all’estero. In questo modo è possibile recepire anche le importanti novità che vengono affrontate al di fuori dell’Italia. Ciò non significa scimmiottare senza senso critico ciò che fanno gli altri, ma cercare di apprendere quanto di buono, di utile e di produttivo c'è in altri contesti, per poterlo applicare anche nel nostro paese; questo è il lato positivo della collaborazione internazionale che deve assolutamente essere uno dei grandi obiettivi del prossimo futuro e della prossima università.”
Restando nel tema della collaborazione, trova adeguato al quadro internazionale il livello di studio della linguistica in Italia? E in quale contesto internazionale, a suo avviso, lo studio della linguistica è particolarmente vivace?
“Direi che nel complesso – perché ovviamente, come dappertutto, ci sono alti e bassi – il nostro ambiente è molto aperto e vicino a quelli che sono i livelli standard europei e internazionali. In questo, devo dire, siamo riusciti a realizzare un obiettivo che vorrei rimanesse sempre molto alto nella lista delle priorità in prospettiva del prossimo futuro.
Invece, tra i paesi stranieri che hanno raggiunto una vivacità maggiore degli altri in campo linguistico, bisogna innanzitutto ricordare gli Stati Uniti, che hanno alcuni livelli di eccellenza che vanno assolutamente osservati e, nei limiti del possibile, coltivati e seguiti per essere anche partecipi di questi livelli. Tuttavia, anche in Europa ci sono altre realtà che hanno ugualmente raggiunto risultati piuttosto notevoli, come la Gran Bretagna. Anche in Italia, però, ci sono delle università che hanno raggiunto dei livelli davvero competitivi rispetto al contesto internazionale.
Ecco, c'è un problema che riguarda la linguistica e che, in effetti, riguarda altre tutte le altre discipline nel nostro paese. Nell'epoca in cui viviamo la globalizzazione porta alla necessità di avere una lingua comune e fondamentalmente questa lingua comune è l'inglese. Un inglese privo di connotazioni britanniche o americane, abbastanza asettico, una lingua che sia lingua di scambio tra identità e culture anche molto distanti, come quella cinese, sudamericana, indiana, e italiana, per esempio.
Noi italiani – e non sto parlando soltanto dei linguisti ma degli italiani in genere – siamo molto indietro nell'acquisizione di questa lingua strumento d’internazionalizzazione. L'Italia, purtroppo, è sempre indietro rispetto agli altri paesi rispetto all'educazione linguistica. E si vede rispetto allo stato delle scuole medie e superiori, in cui – nonostante l'imposizione dell'insegnamento delle lingue sin dai primi anni delle scuole elementari – oltre alle quantità di ore, la qualità della didattica non è tale da consentire agli italiani di acquisire lo strumento linguistico. E devo dire anche che sono contrario all'insegnamento di una sola lingua – che poi coincide con l'inglese – perché credo invece nell'insegnamento di una pluralità di lingue che possa salvaguardare, tra l'altro, anche le identità nazionali più deboli di cui fa parte anche l'Italia, che si voglia o no.
Abbiamo bisogno di strumenti di comunicazione con l'esterno che spesso in Italia mancano, e dobbiamo – o dovremmo, almeno – capire che questo è uno dei grandi compiti del prossimo futuro, perché senza questi strumenti di comunicazione l’internazionalizzazione sarà pressoché impossibile, ma dobbiamo anche sviluppare tutta una capacità di didattica delle lingue – soprattutto al livello della scuola – che invece in Italia è al momento assente. Ecco, noi linguisti dovremmo lavorare anche su questo; dovremmo accogliere questa grande sfida che non riguarderà ovviamente solo i linguisti, ma tutti: da coloro che si occupano di commercio, d’industria, di fisica, di matematica, di medicina e così via.
Bisogna capire che, se la lingua è ciò che ci distingue nel creato – perché per quanto ne sappiamo siamo gli unici a possederla – è anche vero che la conoscenza di una sola lingua oramai non è sufficiente perché siamo entrati in fase dello sviluppo della società umana in cui il monolinguismo non basta più. E in questo la linguistica dovrà essere d'aiuto.”
Può dirci il nome di almeno un linguista italiano di cui ha o ha avuto particolare considerazione?
“Avrei tanti nomi, uno forse è un po' poco. Ad ogni nome io collego un certo tipo di insegnamento diretto o indiretto, perché l'insegnamento spesso avviene attraverso i mezzi della scrittura. Potrei metterla sul privato e, ripeto, premesso che i maestri possono essere e sono sicuramente tanti, direi che serbo un particolare ricordo, e affetto, verso un maestro e amico che purtroppo è scomparso prematuramente e che si chiama Giorgio Raimondo Cardona, le cui opere ancora oggi sono lette, stampate e ristampate.
Cardona è stato per me – e devo dire non soltanto per me, ma adesso parlo sto facendo riferimento alla mia personale esperienza – un modello di vita accademica, ovverosia di uomo integrato nel mondo accademico pur essendo consapevole dei bisogni e delle necessità della società, e quindi parte di un mondo accademico aperto alla società. Un uomo che, pur avendo vissuto pochi decenni, è riuscito a lavorare e pubblicare su argomenti così innovativi – basti pensare che in Italia è stato lui a introdurre l’etnolinguistica – da aprire dei nuovi mondi e nuove prospettive che solo poco prima sarebbero state impensabili. Ha dedicato tutto se stesso allo studio, alla ricerca, e ha fatto non soltanto dello studio e della ricerca una ragione di vita, ma ha spinto tanti altri che lo hanno frequentato a vivere secondo questa ragione.
Ecco, non è da tutti riuscire ad essere così maestri senza imporre la propria identità e autorità, anzi, è da pochi, davvero pochi. Questo è stato possibile perché grazie alla sua forte umanità, al forte senso della collaborazione con gli altri, alla visione dell'uomo come essere che comunica e che collabora con gli altri, grazie a questa sua forte identità riusciva talmente a farsi capire e ad imporsi nella sua grandezza da far sì che chi gli era vicino non poteva fare a meno di apprezzarlo e seguirlo.”
Se la sentirebbe di fare il nome di uno studioso che potremmo considerare "giovane" rispetto ai nomi già affermati e che a suo avviso mostra di avere spessore?
“Anche qui avrei tante e tante possibilità. Ci sono comunque parecchi giovani studiosi, alcuni dei quali hanno già avuto la fortuna, diciamo, di vincere concorsi e quindi di essere entrati nei ruoli accademici – e questo è un bene per loro e per l'accademia –bcosì come invece ce ne sono altri che ancora non hanno avuto questa possibilità, e che spero la possano avere presto, anche se in questo momento le cose sono purtroppo poco chiare. Ci sono numerosi studiosi di varie arie dell'Italia, diffusi a macchia d'olio sul territorio, che hanno mostrato una grande capacità di applicazione e di crescita e che lavorano molto bene, tant'è che mi dispiace quando si dice che l'unica soluzione per i loro problemi sarebbe lasciare l'Italia ed andare all'estero. Questo succede, e ad alcuni di loro succederà, però noi dobbiamo capire che intorno a noi ci sono delle potenzialità che se fossero abbandonate, e lasciate andare all'estero, a quel punto questo paese dovrebbe veramente chiedersi che futuro sta prospettando per sé stesso e per i suoi cittadini, per tutti i giovani.
Sono tante queste persone, e nomi non me la sento di farne. Ma la positività è proprio questa. Tutto sommato, la nostra scuola, nonostante tutte le mancanze, le carenze, nonostante non siamo sostenuti come dovremmo dalle istituzioni, dalle autorità, dal governo, dagli industriali e dalla società che ci circonda, nonostante tutto questo, ebbene siamo riusciti a produrre una classe di giovani che ancora crede nella importanza della ricerca scientifica.
Perché ricordiamolo sempre, e non per ripetere un vecchio adagio che poi era il discorso programmatico del celebre Von Humboldt, ma l'università è università non perché si fa insegnamento, ma perché l'insegnamento si fa sulla base della ricerca che si è fatta o della ricerca che si sta facendo. Quindi l'università è tagliata su questo legame, strettissimo legame, di ricerca ed insegnamento. Questi giovani dei quali ho parlato, sono giovani che hanno pienamente acquisito questo messaggio e, nonostante le grosse difficoltà che li circondano, cercano ancora di credere a questo messaggio; e questa è una cosa molto bella, credo, che dà forza a noi che siamo più anziani e che abbiamo vissuto, tutto sommato, lo svolgersi sia di momenti di qualificazione sia di momenti di dequalificazione, vederli così entusiasti credo che debba fare bene anche a noi. Una delle cose più belle dell'insegnamento è veder crescere gli altri, e la crescita degli altri aiuta a crescere.”
Quale delle cose che ha scritto la rende particolarmente orgoglioso?
“Qualcosa tutto sommato mi rende orgoglioso, ma la parola è un pochino altisonante, diciamo contento, è avere diversificato molto la mia produzione ed essere riuscito a passare abbastanza rapidamente in diversi campi della linguistica ed essere riuscito anche a dire – almeno così credo – alcune cose originali in diverse aree. Questa forse è la cosa che mi rende un po' più contento. Se poi dovessi dire una cosa che – almeno negli ultimi anni del mio percorso scientifico – mi ha fatto molto piacere, è l'avere individuato in modo abbastanza preciso un settore della storia del pensiero linguistico che prima non era stato preso nella dovuta considerazione, ovverosia l'apporto che i Missionari della Compagnia di Gesù hanno avuto nel momento in cui, nel relazionarsi nelle terre di missione con le popolazioni che miravano a convertire, hanno dovuto occuparsi delle loro lingue. Quest'apporto – che ha caratterizzato il tardo 1500, tutto il 1600 e ancora i primi decenni del 1700 – è stato assolutamente innovativo all'interno del panorama occidentale (i missionari a cui mi riferisco venivano tutti dall'occidente europeo), innanzitutto perché sono state introdotte alcune informazioni di cui l'Europa era all'oscuro e, inoltre, perché i missionari sono riusciti anche a creare un movimento d'interpretazione dell'alterità, argomento che fino al giorno prima, praticamente, l'Europa non conosceva. Se l'alterità era vista come pericolo e doveva essere sottomessa o addirittura schiacciata – come poi purtroppo è anche successo – i missionari gesuiti portavano un messaggio diverso: l'alterità deve essere compresa nella sua specificità e con essa si può comunicare. Quindi, aver individuato questo filone di pensiero già nel tardo 1500 e nel 1600 – in un momento in cui l'Europa pensava all'ampliamento dei propri confini con finalità coloniali e a schiavizzare le popolazioni che incontravano nelle nuove terre, mentre i gesuiti lanciavano questo messaggio rendendolo pubblico attraverso gli scritti – penso che sia un'acquisizione piuttosto importante.”
Professore, che cosa sta leggendo in questo periodo?
“Il libro che sto leggendo in questo momento è un libro del mio maestro, diciamo ufficiale, al quale sono molto legato e che purtroppo è scomparso, Walter Belardi. È un libro che si occupa di questioni riguardanti il pensiero del suo maestro, Antonino Pagliaro, che è stato per un anno anche mio professore. Un libro che avevo già letto quando fu scritto, ma che negli anni ho voluto rileggere, e che mi colpisce sempre per il particolare tipo di relazione che traspare attraverso le parole molto tecniche e scientifiche di Walter Belardi che scrive del suo maestro Antonino Pagliaro. Belardi ovviamente esamina il suo maestro dal punto di vista scientifico, e non come persona; lo esamina come studioso e come scrittore di opere veramente molto importanti.
Ebbene, è interessante vedere come Belardi, pur parlando di Pagliaro come uomo di scienza, riesce però a far capire la sua relazione – e anche la sua, se vogliamo, difficoltà di relazione – con un maestro che all'epoca è stato uno dei grandi rappresentanti della cultura italiana, riconosciuto ufficialmente, prima dal regime fascista e poi dalle istituzioni democratiche dopo la caduta del fascismo.
Questo libro mi piace non solo per i suoi contenuti scientifici, ma mi piace in modo particolare proprio perché attraverso le parole e l'interpretazione del pensiero scientifico di Pagliaro, Belardi fa capire quanta relazione umana ci fosse tra lui e il maestro, anche nel tentativo di capire profondamente la dottrina del maestro. Questo, quindi, è un libro che mi attira molto anche perché è legato, per me, a questa indagine quasi psicologica che faccio attraverso la lettura di queste pagine, molto tecniche, molto scientifiche, scritte in modo accattivante e brillante come sa fare Walter Belardi.”
E che cosa sta scrivendo?
“In questo momento sto scrivendo un saggio sul tema che ho già menzionato prima, la linguistica della Compagnia di Gesù, e in particolare sulla figura di Matteo Ricci, grande gesuita morto nel 1810 a Pechino che ha speso la sua vita in terra di missione, prima per alcuni anni in India e poi per la maggior parte della vita in Cina. Missionario al quale si sono aperte le vie per Pechino, primo missionario dell'età moderna che entra a Pechino, muore appunto proprio lì e per volontà dello stesso Imperatore viene sepolto in territorio cinese.
Sto lavorando su questo saggio, raccogliendo saggi miei precedenti per farli confluire in un volume di più ampio respiro, aggiungendo altri argomenti che nel frattempo sono andato maturando. Tra l'altro, visto che sto parlando ad un ateneo napoletano, due settimane dopo il Convegno della SIG del quale abbiamo parlato tornerò a Napoli per un convegno organizzato sempre dall'Orientale sulle lingue della predicazione, convegno a cui sono stato invitato per parlare del linguaggio presso i Gesuiti. Approfittando di questo, parlerò di tre personaggi del mondo gesuitico che hanno delineato una strategia comunicativa innovativa e sono appunto Ricci, del quale ho appena parlato, Valignano, nativo di Chieti, che è uno dei grandi programmatori delle missioni gesuita in estremo oriente e poi Padre Acosta che ha lavorato in Sudamerica e che rappresenta lì ciò che Ricci ha rappresentato in Cina, ovvero il grande organizzatore di una evangelizzazione che guardava all'individuo e alla specificità della società e non voleva invece imporre l'invadente cultura occidentale ed europea, eccentrica, ad un mondo che fino al giorno prima era completamente ignaro dell'esistenza di questa cultura. Mi piaceva ricordarlo perché, appunto, sto dialogando con un ateneo come napoletano, come l'Orientale.”
Lei coordina il dottorato in Storia linguistica dell'Eurasia. Quali prospettive ha un vostro dottore di ricerca dopo il triennio?
“La prospettiva è fondamentalmente, al momento, quella di rimanere nel campo della ricerca. Abbiamo avuto tra i nostri addottorati parecchie persone che poi hanno continuato nel mondo universitario e che attualmente sono ricercatori o professori associati. Queste persone di cui sto parlando, tutte tranne una sola, non sono dell'Università di Macerata ma di altri atenei italiani, perché il nostro dottorato ha anche questa caratteristica – come in realtà dovrebbe accadere in tutti i dottorati ma che spesso diventa più un desiderio che una realizzazione concreta – di avere le porte aperte nei confronti delle persone che vengono da altri atenei.
Noi cerchiamo di realizzare, appunto, un impegno nel campo della ricerca che guardi anche ad esperienze maturate in altri luoghi della ricerca italiana e siamo ben felici di questo perché non soltanto accogliamo – che è una cosa bella – ma accogliendo i dottorandi possiamo acquisire da loro anche le esperienze che hanno fatto nei loro atenei, esperienze educative delle quali facciamo tesoro. A questo miriamo, e pensiamo che questa sia una filosofia di gestione che può portare a risultati apprezzabili a livello nazionale.”
Lei ha studiato in prospettiva linguistica Dante e Leopardi, e li ha citati anche prima quando si parlava del passato degli studi di linguistica. Ci riassume in estrema sintesi le posizioni di entrambi?
“Detto veramente in estrema sintesi, Dante è stato molto chiaro, analitico, nel capire che la lingua è una costruzione che può esser fatta in modo scientifico da parte di coloro – lui li chiama doctores – che hanno una capacità particolare di esercitare questa possibilità, ovverosia arricchire, incrementare la lingua attraverso il loro operato. La lingua non è soltanto quella che noi acquisiamo fin dalla nostra infanzia – e questa è una lingua naturale – ma è anche artificiale, ovverosia è l'artificio, la tecnica, l'arte, che permette al doctor, a Dante, di realizzare un livello di lingua che è superiore rispetto alla lingua che lui chiama volgare. Questo livello superiore è il volgare illustre, che in quanto illustre si allontana e si modifica naturalmente rispetto alla pluralità di volgari. Questo per dire due parole su Dante.
Per dire qualcosa su Leopardi, forse sarò più sbrigativo ma anche più incisivo: a scuola, Leopardi viene studiato come poeta e, nella migliore delle ipotesi, si dice che era anche un grande saggio, uno studioso; ecco, io capovolgerei la situazione e partirei da Leopardi come studioso di lingue, come studioso di traduzioni – Leopardi ha anche realizzato delle traduzioni molto importanti e molto ben fatte dalle lingue classiche all'italiano – quindi, come studioso delle lingue e dell'arte della traduzione che, proprio in quanto tale, diventa poeta.
Capovolgerei, quindi, totalmente la posizione alla quale siamo invitati ad aderire dalla scuola aggiungendo anche che – se sono importantissimi i prodotti finali, che sono le sue opere poetiche, le sue canzoni – queste opere poetiche sono permesse da una riflessione costante che è possibile scorgere in quella sorta di diario di bordo che è appunto Lo Zibaldone. Un testo che è il grande ignorato, la grande mancanza nella preparazione di Leopardi che si fa a scuola, e che credo dovrebbe essere il luogo di partenza della nostra preparazione su Leopardi.
Lo Zibaldone è fondamentale per comprendere lo sviluppo intellettuale di Leopardi e per capire in che modo arriva a costruire le sue poesie. E anche qui potremmo quasi parafrasare quello che ho detto prima su Dante, rivolgendoci a Leopardi, per dire che costruisce i suoi brani poetici pezzo su pezzo e noi lo vediamo anche mettendo a confronto passi de Lo Zibaldone con passi delle poesie e passi delle sue lettere. Confrontando queste opere ci rendiamo conto del percorso che Leopardi fa per arrivare poi alla composizione finale che è appunto il canto. Quindi, il canto, come noi lo crediamo quasi in modo romantico, come creazione che viene dal di fuori e ispirata dall'esterno, invece è la creazione che viene costruita come fosse un'operazione meccanica, ingegneristica, che sarebbe appunto piaciuta molto a Dante che così concepiva la lingua, costruita pezzo su pezzo.”
Lei è stato preside e direttore di Dipartimento. Ha coordinato PRIN e altri progetti. Si può conciliare la partecipazione attiva alla vita del proprio ateneo con la ricerca scientifica?
“Certo, si può conciliare entro i limiti di una giusta distribuzione del tempo tra l'una e l'altra cosa. Voglio essere più chiaro. Quando sono stato Preside per due trienni, dal '90 al '96, l'università – anche se aveva grossi problemi, ed è anche giusto che un'università abbia grossi problemi – proprio all'interno della sua struttura e del suo ordinamento lasciava tempo per ogni cosa: c'era un tempo per l'insegnamento, che era limitato a un certo numero di ore, c'era un tempo per la ricerca, e tempo per altre attività, che nel mio caso sarebbero state quelle di Preside. Oggigiorno tutto questo è impossibile.
La didattica è stata aumentata in modo sproporzionato, al punto che c'è veramente da chiedersi che cosa posso insegnare in tutte queste ore: «Sono capace di insegnare tutte queste ore?», la risposta qual è? «Tu non devi insegnare, tu devi tenere occupati gli studenti», e non è più insegnare, attenzione! L'Insegnamento, con la lettera maiuscola, è ciò a cui alludevo prima: si insegna ciò che si è ricercato. Se io non ricerco più perché non ho più il tempo per farlo, che cosa posso insegnare? Appunto. Devi occupare l'aula con un gruppo di studenti, tenerli occupati per un'ora, una sorta di area di parcheggio culturale.
Se noi ragioniamo in questi termini allora non è più possibile fare didattica, fare ricerca e fare amministrazione universitaria. E inoltre, dal canto suo, l'amministrazione universitaria è diventata oramai una sorta di megaufficio burocratico in cui si fa di tutto, e si fissa tutto dopo averlo fatto, perché noi siamo bombardati da circolari ministeriali e da decisioni del Ministro, che giungono in continuazione l'una dopo l'altra in modo affannato e affannoso per noi, e ci obbligano costantemente a rivedere i nostri ordinamenti didattici e le nostre condizioni.
Ecco, un'università che è continuamente sotto stress non può essere un'università che sviluppa una buona ricerca e una buona didattica.
È necessario fare tutto questo? Secondo me, no. La risposta è molto semplice, è un secco no. La tranquillità dell'animo – e dello spirito – è la cosa in assoluto prioritaria per una ricerca efficiente e una didattica incisiva. Se noi togliamo la tranquillità dello spirito non otterremo mai questo, ma avremo la nevrosi. E la nevrosi è una pessima consigliera e non porta a nessun risultato produttivo. Ecco, questo è in sintesi quello che io penso.”
Professore, ci lasci con auspicio per l'Università italiana.
“L'auspicio è nella fede nella ricerca e nella didattica. Se c'è questa fede, questa fiducia, io penso che abbiamo ancora possibilità per credere in un miglioramento. E per questo, però, ci vuole anche grande solidarietà tra noi tutti. Non dobbiamo cominciare a badare al particolare, non ci si deve accontentare della briciola che eventualmente si riesce a conquistare ed essere appagati da questa briciola. Non dobbiamo guardare al particolare, ma dobbiamo guardare al sistema, al generale, e combattere per questo sistema ricordandoci sempre – questo è molto importante – degli insegnamenti del passato. L'insegnamento dei maestri che abbiamo conosciuto, e di quelli che non abbiamo conosciuto se non attraverso i loro scritti, perché anche attraverso gli scritti si conoscono i grandi maestri. Ebbene, ricordandoci di quanto loro hanno fatto e hanno detto, questa fede nella ricerca e nella didattica – e quindi dello sviluppo dei giovani verso altri potenziali ricercatori e insegnanti – deve sostenerci. Se perdessimo anche questa, allora veramente rimarrebbe un mondo di desolazione, e non lo sarebbe solo per l'università ma diventerebbe a quel punto una desolazione per tutta l'educazione e la cultura di questo paese e, perché no, anche degli altri paesi. La crisi potrebbe rivelarsi come una crisi internazionale, una crisi d'identità e di cultura che porterebbe ad un medioevo di oscurantismo – non paragonabile al medioevo di cui si continua a raccontare quanto fosse oscurantista – ma un vero medioevo di oscurantismo quale l'umanità forse non ha mai conosciuto prima.
E questo è paradossale in un momento in cui gli strumenti e la tecnica, e quindi la ricerca, ci hanno portati talmente avanti da riuscire in pochissimi anni a fare passi che in passato non si facevano in trecento anni. È paradossale che in un momento simile, in cui c'è la possibilità di portare tutto a livello esponenziali, noi ci si arrenda o ci si debba arrendere davanti a una serie di situazioni che stanno veramente logorando non soltanto i nostri spiriti, ma anche i nostri corpi. Ecco, questa è una cosa che non dobbiamo permettere che avvenga.”
Intervista raccolta da Azzurra Mancini - Direttore: Alberto Manco