XXXV Convegno della Società Italiana di Glottologia: intervista a Max Pfister

 

XXXV Convegno della Società Italiana di Glottologia: intervista a Max Pfister

Il prof. Max Pfister durante l'inaugurazione del Centro LeItaLiE all'Orientale

“L’Orientale? L’Italia è l’unico paese ad avere un ateneo così importante per lo studio delle lingue”

Professore, prima di parlare del convegno di quest'anno e del tema centrale, L'etimologia, un ambito su cui lei ha concentrato il lavoro di una vita, vorremmo farle qualche domanda sul suo passato di studioso e ricercatore.
Lei ha conseguito il dottorato di ricerca nel 1958 e per un decennio ha collaborato accanto a Walther von Wartburg.
Il progetto da lei realizzato, il Lessico Etimologico Italiano, è stato in un certo senso un modo di misurarsi con il lavoro del maestro e un modo di continuare la sua opera di studio etimologico e lessicografico, portata avanti nell'ambito del francese con il Französisches Etymologisches Wörterbuch, il FEW.
Ci racconti qualcosa di quel periodo, qualche ricordo legato al maestro Wartburg e al lungo “apprendistato” che ha potuto sperimentare in quegli anni.

“Dal 1959 al 1969 ho insegnato a Zurigo e, per dieci anni, ogni lunedì andavo a Basilea per lavorare con quello che considero il mio primo maestro, Walther von Wartburg. Il preside del liceo in cui lavoravo, fortunatamente, mi aveva concesso un giorno libero a settimana e, in cambio, io avevo scelto come orari di lezione quelli più scomodi che gli altri docenti evitavano volentieri.
Il maestro Wartburg – che noi chiamavamo il padrone – conduceva una vita particolare, con ritmi molto precisi: si lavorava dalle otto del mattino fino alle dieci di sera e faceva una sola pausa tre le 12 e le 12.30 per il pranzo. Ricordo che quando riposava il pomeriggio aveva bisogno di silenzio assoluto e noi collaboratori avremmo fatto qualsiasi cosa pur di non svegliarlo, altrimenti sarebbe stato di cattivo umore tutta la giornata. Però, quando la sera, dopo aver finito di lavorare ci si tratteneva insieme a qualche altro collaboratore, appariva tutt'altro padrone: uno dei ricordi più semplici legati a quei momenti dopo il lavoro è che ci offriva ciliegie.
Dal punto di vista professionale, quei dieci lunghi anni rappresentano uno dei periodi più importanti, ecco perché considero Wartburg il mio primo maestro, anche se prima di incontrarlo non avevo mai seguito una sua lezione. Perché riuscì a darmi l'ispirazione e, con essa, anche i ferri del mestiere.”

Il LEI, il progetto di ricerca a cui si dedica dagli anni Settanta – e al quale lavorano diversi studiosi da lei selezionati, in gran parte italiani, tra cui Elda Morlicchio, docente dell'Orientale – oggi rappresenta uno dei più importanti laboratori di studio nell'ambito lessicologico e lessicografico in Europa. Vorremo sapere quando è nato il suo interesse per l'ambito linguistico italiano e quali sono le motivazioni che l'hanno spinta a dedicare ad esso le sue ricerche.

“Devo confessare che il mio primo amore è stato l'antico occitano. Nel 1959, subito dopo il dottorato di ricerca, ho lavorato a questo primo progetto lessicografico mettendo insieme circa duecentomila schede redatte a mano. L'amore per l'italiano che ha caratterizzato i miei studi successivi, invece, risale al primo contatto con la lingua durante gli anni del liceo. Grazie alle lezioni di latino del professore Franz Fankhauser – l'altro maestro a cui ho dedicato il LEI, oltre a Wartburg – ho iniziato ad interessarmi alle lingue, imparando a riconoscerne i legami, i collegamenti, le relazioni interne, attraverso la comparazione delle varietà romanze. Tutto questo ha contribuito a far crescere il mio interesse per l'italiano. Dopo il lungo periodo passato a lavorare con il maestro Wartburg, avendo abbandonato il progetto iniziale sull'antico occitano, immaginai di realizzare un dizionario etimologico proprio della lingua italiana, anche se il progetto presentava una difficoltà di non poco conto, perché all'epoca non esisteva nemmeno un dizionario di italiano antico.
Nei primi anni non è stato affatto facile, ma oggi il LEI comprende cinque milioni di schede e può sicuramente essere considerato come il materiale più completo rispetto all'italiano e le sue varietà dialettali, in ambito internazionale.”

L'opera è redatta interamente in italiano. Quali sono i motivi di questa scelta?

“Proprio durante l'esame per l'approvazione del mio progetto, nel 1972, la scelta dell'italiano rappresentò un motivo di discussione tra i membri della commissione, di cui faceva parte anche Manlio Cortelazzo. Ricordo che il dibattito nato tra romanisti e germanisti mi permise di riprendere fiato e raccogliere le idee dopo tre ore di esame. Senza dubbio è stato l'esame più difficile di tutta la mia vita.
I romanisti – tra cui anche Eugenio Coseriu – appoggiarono la scelta dell'italiano anche per assicurare all'opera un'ampia diffusione nel contesto di riferimento, mentre i germanisti mi chiesero il perché di questa preferenza.
Io, molto semplicemente, volevo evitare che si ripetesse quanto già accaduto con il FEW, che durante i primi trent’anni era stato poco conosciuto e recensito in Francia proprio perché scritto interamente in tedesco. Con il tempo abbiamo scoperto che avevano ragione i romanisti, quella dell'italiano è stata una buona scelta.”

Il progetto ha incontrato non poche difficoltà nel suo lungo cammino, dettate non solo dalla grande complessità del lavoro in sé ma anche dalle possibili critiche mosse a un lavoro di simile ampiezza. Non ha mai pensato di desistere? Che cosa consiglierebbe ai giovani studiosi e ricercatori i cui obiettivi di ricerca sembrano avere orizzonti troppo vasti?

“Vorrei raccontare un aneddoto in particolare, che riguarda me e il professor Gerhard Rohlfs. La prima volta che presentai il progetto ad una commissione di valutazione non riuscì ad ottenerne il finanziamento e, in seguito, venni anche a sapere il perché. Durante un colloquio informale, Rohlfs mi confidò, infatti, di essere stato il principale responsabile del fallimento del mio progetto perché, secondo il suo parere, non aveva senso una proposta di studio dell'ambito dell'italianistica date le mie precedenti ricerche nell'ambito dell'antico occitano e data la mancanza di un dizionario dell'italiano antico di riferimento.
Quando finalmente nel 1979 fu pubblicato il primo fascicolo del Lessico Etimologico Italiano, mi assicurai che Rohlfs fosse tra i primi a riceverlo. Di tutti i colleghi, fu il primo a rispondere. Mi arrivò una cartolina postale su cui c'era scritto soltanto: «Ha vencido lo imposible».
In base alla mia esperienza, quindi, posso soltanto consigliare ai giovani di lavorare sodo, avere pazienza e resistere per perseguire i propri obiettivi, continuando a cercare ogni giorno stimoli nuovi per la ricerca.”

Professore, ritornando al tema del Convegno, ci può descrivere brevemente l'attuale panorama degli studi etimologici e lessicografici in Europa?

“Purtroppo, la questione dei finanziamenti per la ricerca è di primaria importanza. La realizzazione di dizionari etimologici richiede decenni di lavoro e, poiché non sempre le istituzioni promuovono progetti di questo tipo, spesso i fondi si concentrano sulle ricerche che richiedono tempi minori. La Francia è a buon punto soprattutto grazie al FEW ma mancano i fondi per portare a termine quanto indicato da Wartburg, rifare da capo le lettere A, B, D, E ed F. Attualmente, è stato portato a termine solo il lavoro per la lettera A. In Spagna esiste una buona tradizione di studi, un valido dizionario e studiosi che possono portare avanti il lavoro lessicografico, nonostante una situazione non molto favorevole. In Germania, invece, la situazione è diversa, perché i finanziamenti sono maggiori e – di conseguenza – ci sono molte più possibilità, mentre l'Italia è quella che al momento si trova in una delle posizioni più favorevoli, grazie al LEI, anche se dal punto di vista della ricerca ha problemi di finanziamento come altri paesi europei.”

Il tema della relazione che lei presenta al Convegno è “Etimologia: il problema di it. andare, fr. aller, cat. anar e it. andito”. Di che si tratta?

“Ci sono stati alcuni cambiamenti rispetto all'idea iniziale, che consisteva nel cercare una base comune per le tre forme presenti nel titolo, una base che credevo di aver rintracciato nel latino ambulare. Grazie a nuovi studi e al confronto con studiosi e colleghi, ho trovato tre diverse attestazioni in latino che si ricollegano alle forme prese in esame e che permettono di confutare l'idea iniziale di una base comune. Queste tre attestazioni rappresenteranno il nuovo punto di partenza.”

Etimologia e comparativismo. Il Convegno SIG di quest'anno vedrà vari esperti di aree linguistiche differenti – che spaziano dal mondo ispanofono all'area sinotibetana – incontrarsi sul comune terreno dell'etimologia. Cosa si aspetta da un simile confronto e che attese ripone in queste giornate di studi?

“Comparazione ed interdisciplinarietà. La cosa che considero più importante è il confronto, la possibilità di lavorare insieme: latinisti, romanisti, germanisti, indoeuropeisti, glottologi, e così via. Ecco uno dei motivi per cui sono molto contento di poter partecipare al Convegno della SIG di Napoli perché potrò incontrare studiosi di questi ed altri ambiti disciplinari ai quali sono direttamente interessato, come esperti di studi medievali e orientali. Cinquant'anni fa sarebbe stato difficile riunire insieme così tante specialità.”

Lei collabora con diversi studiosi italiani: quali sono i suoi rapporti con l'Orientale e con gli studiosi che operano a Napoli, oltre alla già citata Elda Morlicchio, della cui collaborazione si avvale per la sezione germanismi del LEI?

“Napoli è un luogo importante e non soltanto per la presenza di professori come Elda Morlicchio, che ha creato un nucleo di germanisti che lavora al progetto del LEI e che per me ha, quindi, un’importanza particolare. Ho rapporti con molti altri studiosi, non soltanto dell'Orientale, ma anche della Federico II, e poi ci sono quelli che io considero i grandi professori. Per citarne solo qualcuno, conosco Domenico Silvestri e la sua opera di ricerca, Alberto Varvaro e il suo lavoro come romanista; e poi c'è il Centro di ricerca 
“Lessicografia dell’italoromanzo e delle lingue europee”. Considerando tutti questi elementi, direi che Napoli è un luogo privilegiato per lo studio della Romània. Tutto questo è molto stimolante per uno studioso come me.”

L'anno scorso, all'Orientale, c'è stata l'inaugurazione del Centro di ricerca interunivesitario LeItaLiE, e le attività hanno avuto inizio con una sua Lectio Magistralis. Che ruolo ricopre l'Ateneo – con la sua specializzazione linguistica – nel panorama di studi sull'etimologia e, più in generale, negli studi linguistici?

“Forse l'Italia è l'unico paese ad avere un luogo simile, così importante non solo per le lingue romanze, germaniche e per quelle antiche, ma per tutte quelle lingue i cui specialisti sono così rari. L'Orientale riunisce tutte queste specialità, e questa è una notevole capacità, soprattutto in questo preciso momento storico: se si pensa alla situazione attuale e a quanto si discute di oriente, di Islam, di contatti con altre culture e così via.
La base per comprendere ciò che non conosciamo è la conoscenza della lingua: è la possibilità di poter leggere il corano, in lingua originale; e questo all'Orientale è possibile imparare a farlo.”

Prima di concludere, un'ultima domanda. Lei è stato studente dell'Università di Pisa per un semestre, e ricorda quel periodo come un momento di crescita non solo professionale, ma anche umana. La sua esperienza nell'università italiana, quindi, pare essere stata molto positiva. Data la situazione di crisi in cui versa il sistema universitario attualmente, cosa consiglierebbe ai giovani studenti e ricercatori che spesso si vedono costretti ad andare lontano dall'Italia per realizzare i propri progetti?

“Grazie ad una borsa di studio, nel 1957 ho potuto frequentare per sei mesi l'università e la Scuola Superiore Normale di Pisa, e conservo tuttora uno splendido ricordo di quel periodo: le giornate passate tutti insieme – colleghi, studenti e docenti – in un clima così diverso da quello in cui ero stato immerso fino ad allora.
Un momento importante non solo dal punto di vista scientifico, ma anche personale.
Seguo la situazione italiana e so che oggi essa è difficile, tuttavia bisogna resistere. Questo momento mi ricorda un po' ciò che accadeva in Germania nel 1989. Se fossi stato più giovane mi sarebbe piaciuto molto spostarmi nella Germania dell'est, perché lì sarebbe stato possibile creare e sviluppare nuovi centri di studio. Lavorare in un simile ambiente, così rinnovato, certamente deve essere un'esperienza magnifica; ma non deve accadere per forza.
E, in effetti, proprio perché in Italia la situazione è così difficile, devo confessare che ammiro molto i miei colleghi italiani. Con poche risorse, lavorano e producono opere magnifiche, come per esempio succede a Padova, a Roma, a Palermo e come voi a Napoli. Con i pochi mezzi a disposizione, si fa il possibile, e questo suscita molta ammirazione. In Germania è più facile. Quando ci sono le università, le accademie e una ricerca nazionale che può veramente aiutare i progetti, allora è tutto diverso.
In Italia, oggi, è più difficile. Posso soltanto dire agli studenti, e, come voglio sottolineare con forza, anche ai miei colleghi: non disperate, perché ogni percorso di ricerca ha i suoi alti e bassi, e non bisogna mai desistere.
Come insegnava Walther von Wartburg serve perseveranza: bisogna soltanto avere il coraggio, trovare gli stimoli e andare avanti.”

Azzurra Mancini - Direttore: Alberto Manco

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