Annamaria Palermo: “noi come la Cina”

 

Annamaria Palermo: “noi come la Cina”

Annamaria Palermo

Conoscere una grande civiltà e contribuire a sfatare alcuni miti che la riguardano. La soddisfazione per la seconda edizione di MilleunaCina. La certezza che investire nel cinese sia un ottimo suggerimento da dare ai giovani. E la rivendicazione convinta di una vita spesa dentro l'Orientale

Professoressa Palermo, che cos’è l'Istituto Confucio e come si esprime la relazione dell’Orientale con esso?

“L’Istituto Confucio è un’emanazione del Ministero della Pubblica Istruzione Cinese che ha creato un ufficio apposito, l’Hanban, per la diffusione della lingua e della cultura cinese. L’idea è venuta nel 2006 quando si è deciso di aprire questi Istituti in tutto il mondo e ad oggi se ne contano quasi 400. L’obiettivo primario è dunque la diffusione della lingua cinese ma un altro aspetto importante è quello relativo alla formazione di insegnanti: un eventuale sbocco per i nostri laureati è per esempio questo. Oltre a fare i mestieri che tutti ci auguriamo che facciano grazie alla conoscenza del cinese essi possono avere una sorta di abilitazione all’insegnamento con i corsi appositi dell’Istituto Confucio per insegnare il cinese nelle scuole italiane, a partire da quelle elementari fino ad arrivare alle superiori.”

Lo studio di lingue e culture cinesi può quindi favorire l’ingresso nel mondo del lavoro?

“Il cinese sta diventando una lingua importante e un altro compito del Confucio è proprio creare uno sbocco professionale significativo per i nostri laureati. Il Confucio si apre all’interno dell’Orientale – che è nato come Collegio dei Cinesi nel 1732 – che è in questo senso un’Università con un’identità molto forte per ciò che concerne le culture altre e in particolare per quanto riguarda l’Oriente e la Cina. L’idea del Ministero Cinese è quella di aprire gli Istituti Confucio nel mondo, chiaramente nelle Università in cui c’è una presenza dell’insegnamento della lingua e della cultura cinese. Possiamo parlare quindi di uno scambio osmotico per cui il Confucio serve all’Orientale per tutti gli approfondimenti della lingua cinese e l’Orientale serve al Confucio perché lo arricchisce delle nostre competenze specifiche sulla storia, sulla letteratura e così via.”

Lo studio di lingue e culture cinesi è un attrattore importante del nostro Ateneo per futuri studenti?

“Assolutamente sì. In questi ultimi cinque anni abbiamo avuto come matricole che si iscrivono ai vari curricula di cinese moltissimi studenti all’anno. Se pure tenessimo conto delle percentuali obbligate che si perdono per strada, dovremmo comunque rilevare che arrivano ogni tre anni alla prima laurea triennale alcune centinaia di studenti e a quella specialistica un altro numero molto consistente. Cosa, questa, che ci mette in condizione di parlare di un successo di grande rilievo.”

Come nasce milleunaCina e con quali obiettivi?

“Diffondere un’immagine quanto più ricca e variegata possibile di cosa sia la Cina oggi. Questa manifestazione è alla seconda edizione e devo dire che è un’idea mia – qui devo rivendicarne la «paternità». Io sono stata negli anni ’90 il Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Pechino e ora sono il vicepresidente del Confucio: la mia idea è proprio quella di far arrivare a un pubblico più vasto – soprattutto di giovani – qui in città e sul territorio campano, i mille aspetti di questo Paese e di riuscire ad attirare le persone, ad interessarle anche per sfatare certi miti o equivoci culturali che sono ormai radicati in Occidente e in particolare in Italia e che continuano a perpetrarsi. Noi che conosciamo la Cina siamo quelli che anche pedagogicamente dobbiamo insegnare agli altri – ripeto, soprattutto ai giovani – che la Cina è una realtà molto ricca ma anche molto complessa. È vietata quindi ogni generalizzazione: io penso che mediamente i cinesi vengano percepiti come quelli che copiano tutto, o come quelli che sono molto potenti perché sono tanti e lavorano sempre, che arrivano in Occidente per distruggerlo. Naturalmente ci saranno anche alcuni di questi aspetti ma quella cinese è prima di tutto una grande civiltà!”

La manifestazione si articola in momenti molto diversi tra loro: musica, video, cucina, solo per fare qualche esempio. Qual è il senso di un programma così variegato che sfrutta questi “linguaggi della contemporaneità”?

“Cinema, video, foto a cui si aggiungono quei linguaggi considerati dai cinesi come tradizionali e che – rivisitati – sono per noi ostici come la calligrafia, un’arte molto raffinata che la gente scopre essere anche una forma d’arte visiva molto contemporanea perché un ideogramma di per sé è un’astrazione, qualcosa di molto concettuale. «Loro» molto prima di «noi», più che per vocazione anche per visione del mondo, esteticamente avevano certi punti di riferimento a cui noi siamo arrivati molto dopo con la modernità, con la contemporaneità.”

Come si colloca la città di Napoli rispetto a questo tipo di occasioni?

“La risposta c’è ed è molto positiva. Sono contenta che siano intervenuti molti giovani: sono contenta in realtà anche se i miei coetanei scoprono la Cina un po’ in ritardo, ma mi interessa soprattutto il riscontro con i giovani affinché questi siano stimolati a scoprire libri, a cominciare a studiare cinese, a fare anche solo un viaggio.”

“Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”. Come e perché gli incontri partono da questo messaggio particolare?

“Perché in Cina come nel resto del mondo in questa stagione della globalizzazione si sono un po’ persi i punti di riferimento, in particolare lì a causa di questa accelerazione che c’è stata negli ultimi venti anni. Il discorso su chi siamo e da dove veniamo è per loro quanto mai appropriato anche perché come noi che abbiamo un debito grande con la cultura magno-greca solo per ricordarne una, loro hanno fatto i conti con un passato che può essere affascinante ma anche molto pesante e che in qualche modo o si deve liquidare o si deve far rivivere. «Da dove veniamo» perché il peso della vetustà della civiltà è importante, e in questo italiani e cinesi si somigliano molto perché siamo tutti figli di grandi civiltà del passato, però viviamo nella contemporaneità ed è necessario quindi cercare di trovare un equilibrio – loro parlerebbero di armonia – tra quello che si è stati, anche a partire dalla cultura dei propri antenati, e l’oggi. Naturalmente è un processo che si rinnova di giorno.”

Come è percepita l’Università l’Orientale dall’Università cinese?

“Molto bene, anzi molto meglio di qua! Voglio dire: gli addetti ai lavori e voi studenti lo sapete ma per esempio in Europa o nel mondo occidentale sfugge che noi siamo il centro più antico dell’Occidente in cui si è studiato in maniera accademica e sistematica il cinese dal 1732: da quando Matteo Ripa – missionario – andò in Cina e tornò con questi 10 mandarini e decise di fondare il Collegio dei Cinesi. Sull’importanza dell’Orientale abbiamo avuto per esempio articoli su quotidiani cinesi che vengono letti più o meno da un miliardo di persone. In Cina hanno davvero una notevole riverenza per il nostro nome, per questa Università.”

Consiglierebbe al figlio di un amico che volesse studiare cinese di farlo all’Orientale?

“Certo che sì! Studiare all’Orientale dà grandi soddisfazioni e io ne sono l’esempio vivente. Mi sono iscritta all’Orientale, ho studiato cinese, giapponese, russo, sanscrito, coreano e tibetano, e ho continuato con il cinese. Quando mi sono laureata sono riuscita ad andare in Cina e in Francia con delle borse di studio e lì ho cominciato a insegnare giovanissima il cinese. Tutta la mia carriera l’ho fatta qua: quando io mi sono iscritta nel ’61 e mi sono laureata nel ’64 siamo partiti in quattro, due studenti di cinese e due di giapponese. Di quelli di cinese la mia amica negli ultimi anni se ne andò e quindi l’ultimo anno ho fatto da sola cinese e mi sono laureata da sola! Ora trovo che i miei 350/400 studenti costituiscano dei numeri impressionanti!”

Lo studio di lingue e culture cinesi può favorire quindi l’ingresso nel mondo del lavoro?

“Altroché! Molto, moltissimo in questo momento! C’è una grande domanda, la Cina sta sui giornali ogni giorno ma bisogna comunque parlare di eccellenze: chi è bravo e chi è motivato non solo vede riconosciuti dopo la laurea i suoi meriti ma certamente ha una grande carriera e guadagna anche molto bene. Naturalmente se lo si prende sotto gamba, se si è studenti pigri allora il cinese non va studiato. Bisogna fare un salto di mentalità linguistica e quindi o si hanno dei motivi profondi per farlo oppure è meglio scegliere lingue europee che più o meno non implicano questo tipo di sforzo. Anche e soprattutto con il cinese la mediocrità non paga proprio.”

Sul piano dell’internazionalizzazione, ovviamente con riferimento all’investimento sul versante cinese, considera adeguato lo sforzo dell’Ateneo?

“Io penso di sì ma quello che lamento io è il rapporto tra l’Università e la società civile e forse, devo dire, anche con le autorità politiche. In questo caso abbiamo avuto la collaborazione dell’Assessorato alla Cultura ed è grazie a loro che abbiamo ottenuto gli spazi per questa iniziativa ma vedo che in generale c’è molta distrazione e indifferenza. Non c’è una risposta e per esempio mi vengono in mente tutte le polemiche che sta suscitando il Forum delle Culture. Provocatoriamente quando abbiamo inaugurato milleunaCina ho affermato che se c’è un Forum delle Culture quello siamo noi! L’Orientale in primis e poi noi sinologi che in una città come Napoli abbiamo messo a disposizione di tutti, per sette giorni, vari aspetti di un Paese grande come la Cina. Secondo me di diritto dovevamo essere noi a fare un progetto con questo Forum delle Culture. Se c’è una situazione di multietnicità, di multiculturalità siamo noi! Che non se ne siano accorti mi sembra un fatto grave.”

Per concludere... un film, un libro per avvicinarsi alla Cina.

“Come film consiglio quello che verrà proiettato anche qui a milleunaCina ed è In the heat of the sun tradotto come Nel calore del sole, un film bellissimo del ’93 dell’attore-regista Jiang Wen. Il primo grande film che ha avuto successo è stato Sorgo rosso che nel 1987 al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Oro e fece così scoppiare il caso della cinematografia cinese che è poi arrivata a tutti i festival. Il protagonista di Sorgo rosso è infatti il regista del film che ho consigliato, un film molto lirico sulla generazione perduta dei ragazzi che erano adolescenti durante la Rivoluzione Culturale – quindi dal ’66 al ’76 – e che scoprirono il mondo attraverso i loro miti. Quello che colpisce è che si mostra qualcosa che nessuno ha immaginato in Occidente e cioè che si trattava di ragazzi come tutti, desiderosi di libertà, di sogni e che, anche in quel contesto che a noi poi dopo è sembrato così scuro come quello della Rivoluzione Culturale, hanno trovato il modo di esprimersi in questa Pechino che definirei un po’ decadente. Quanto al libro ce ne sono tantissimi che noi abbiamo presentato, l’ultimo in occasione della serata dell’inaugurazione con Peppe Servillo, Andrea Renzi e Roberto De Francesco che hanno letto dei brani di questi due grandi romanzi scritti da quello che a mio avviso è il più grande romanziere vivente in Cina, Mo Yan. Si tratta di romanzi recentissimi, uno del 2006 e uno del 2009, che sono Il supplizio del legno di Sandalo e Le sei reincarnazioni di Ximen Nao. Mo Yan – per intenderci – l’hanno paragonato a Gabriel García Márquez perché tutti i suoi romanzi sono ambientati in questo «Gaomi» che è il suo paese natale da intendersi un po’ come appunto il «Macondo» di Márquez.”

Francesca De Rosa

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