Figli di una sanità minore

 

Figli di una sanità minore

La Giornata su “Migrazione e Salute” ha visto ospiti dell’Orientale competenze di provenienza interdisciplinare e interstrutturale

Palazzo Du Mesnil, 30 novembre - Rappresentanti del mondo accademico, della politica, dell’Asl, delle Associazioni di settore si sono dati appuntamento nella sede del rettorato dell’Orientale per fare il punto della situazione sul tema spinoso dell’assistenza sanitaria ai migranti. Partendo dalla presa d’atto che, come ha ricordato Salvatore Sciorio, ginecologo,  “il diritto alla salute è sancito dalla nostra costituzione” e che il benessere collettivo è dato dalla somma dei benesseri  individuali, emerge la necessità di garantire a tutti i membri della società interculturale la risposta adeguata ai differenti bisogni. Bisogni che vanno decodificati anche quando non sono nemmeno percepiti dai migranti stessi. Di qui l’impegno del Centro Lifelong Learning dell’Orientale, attivo da anni nella formazione continua per soddisfare le richieste di personale specializzato nella mediazione culturale anche in ambito sanitario. La presidente Luigia Melillo, docente di Storia della medicina e bioetica interculturale, ricordando che il lavoro del Centro è in linea con le direttive europee che manifestano ansia per la carenza di formazione nel settore sanitario, ha sottolineato che le comunità migranti con cui ci si confronta a Napoli sono molto radicate alla propria cultura e alle proprie tradizioni medicinali nei confronti delle quali dobbiamo mostrare rispetto: “l’Orientale deve promuovere questo nuovo Umanesimo basato sui valori dell’inclusione, dell’amicizia e della pace”. Mascia Marini, responsabile presso l’ambulatorio di tutela della salute degli immigrati dell’Ospedale Ascalesi , ha messo in luce come il confronto che le tradizioni mediche esotiche può arricchire anche le nostre competenze: “gli stranieri che qui in Italia svolgono lavori umili” - ha ricordato - “sono in realtà spesso di formazione elevata, ci sono medici, farmacistici. Anni fa una dottoressa cingalese che in Italia svolge mansioni da badante ha guidato una passeggiata nell’Orto Botanico mostrando le piante che possono essere utilizzate a fini terapeutici”.  Una risorsa, dunque, che avrebbe potuto e dovuto essere meglio utilizzata e che invece è tornata, complice anche la situazione di oppressione familiare di cui è vittima, a fare la badante: una gravissima perdita e un fallimento del processo di integrazione.  Particolarmente toccante l’intervento della dottoressa Valéry Kamga presidente di Donne Migranti Internazionali, di formazione infermieristica e farmaceutica. La Kamga, dopo aver chiarito che parlare di salute significa non solo parlare di assenza di malattia ma anche di benessere, mentre quando si parla di migranti sembra che si ponga l’accento solo sul primo aspetto, come se i migranti avessero diritto solo ad essere curati nell’emergenza e non al benessere e quindi alla prevenzione, ha sottolineato come l’immigrazione sia un evento traumatico: ”Capita che l’immigrato si rifugi nella malattia per non ammettere il fallimento del progetto migratorio, e per questo spesso  la condizione stessa di immigrato è un po’ una malattia”. Ad Alessandro Triulzi il compito di trarre le conclusioni della giornata: bisogna lavorare non semplicemente “per” ma “con” i migranti. Il mediatore culturale, o meglio transculturale, deve avere competenze ben aldilà di quelle meramente linguistiche e non sarebbe male se fosse un migrante stesso , opportunamente formato. “Infine, non dobbiamo attenderci nulla dai governi, ma l’impegno all’inclusione deve venire innanzitutto dalla società civile. E se in questa sede è un dato acquisito che l’immigrato contribuisca a un’Italia migliore, ora questa consapevolezza dobbiamo insegnarla anche fuori con film, documentari e ogni genere di attività divulgativa”.

Concetta Carotenuto

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