Homelands in translation: rinominare le cose, capire il mondo

 

Homelands in translation: rinominare le cose, capire il mondo

Michele Bernardini

Michele Bernardini parla della Summer School che ha attirato studiosi da ogni parte

Il programma della Summer School prevede interventi di studiosi di livello internazionale, oltre a docenti del nostro Ateneo. Ce ne parla? "La professoressa Camilla Miglio ed io lavoriamo da tanti anni su questo tema. Negli anni ‘90 abbiamo iniziato un corso di studi comparatistici e in quest’ambito abbiamo organizzato numerosi eventi correlati (un seminario di lessicografia sugli intraducibili, un altro sulla metodologia della ricerca, un terzo sui rapporti di potere e sul concetto di libertà nelle letterature). Tutto ciò ha costituito il lavoro preparatorio a questa Summer School, a cui si è aggiunto il progetto EST, che ci ha portato a ideare vari congressi (a Parigi, Vienna, Halle) e prevede altri eventi in futuro (a Oxford e Copenhagen). Nel mese di novembre, infine, ci sarà l’evento più importante che è il Festival della Traduzione che si terrà a Napoli e sarà il momento finale di tutto questo grande lavoro." Gli accademici presenti qui a Procida provengono da diversi ambiti di studio e pervengono, quindi, al concetto di homeland e alla traduzione percorrendo strade diverse. Cosa può aspettarsi un uditore dal confronto di così tanti punti di vista? "Una delle caratteristiche di eventi di questo tipo è l’interdisciplinarietà: l’unione di competenze diverse ha come scopo principale quello di fondere differenti metodologie. Il nostro obiettivo è quello di superare le barriere create dai vincoli accademici, che pur servono a imporre disciplina e rigore, ma che a volte limitano le prospettive e i risultati della ricerca. Qui a Procida abbiamo interventi di filosofi, antropologi ed etnologi, studiosi di scienze politiche, specialisti di letteratura e infine, seppur marginali in questo quadro, di storia, arte, archeologia, linguistica. Andando oltre lo sconcerto dell’ascoltare un tema visto dall’angolazione di uno studioso che non appartiene alla propria disciplina, ci proponiamo di favorire, così, l’elasticità mentale dei dottorandi, di mostrare il potenziale enorme di diverse metodologie fuse insieme, soprattutto in vista di una pubblicazione finale. Il contributo dei dottorandi, inoltre, si è dimostrato di estremo valore al fine di pervenire ad una ricerca più dinamica e moderna rispetto ai paludati interventi ex catedra da parte dei docenti. Inoltre, la presenza di ospiti stranieri da una parte permette di uscire fuori dalla prospettiva a volte un po’ provinciale della cultura italiana, dall’altra di mettere a disposizione della comunità internazionale il potenziale infinito che L’Orientale possiede. Si instaura una reciprocità straordinaria che permette di realizzare un qualcosa che abbia una dimensione europea." A chi si rivolge un progetto come questo? "Si rivolge soprattutto a studenti di dottorato, ma naturalmente può essere utile anche a studenti meno avanti negli studi: ognuno dovrebbe calarsi, in queste occasioni, in panni più umili di quelli dello specialismo ossessivo e maniacale che spesso accompagna i nostri studi per diventare comprensibile a tutti. Si rivolge anche, in fondo, ad un insieme istituzionale: non mi dispiacerebbe se questa iniziativa aiutasse a ridefinire il ruolo del traduttore/interprete in ambiti in cui è necessario uno svecchiamento nella realtà italiana, come l’ambito processuale o dell’immigrazione." Secondo lei, che valore ha il concetto di homeland e dove si colloca nella società attuale, un contesto diviso fra globalizzazione e sempre presenti spinte localiste che rivendicano l’appartenenza a entità culturali? "Globalizzazione, in sé e per sé, è un concetto traditore, che può indicare la manifestazione contemporanea di un fenomeno in tanti luoghi, ma anche l’estrema esasperazione delle singolarità, delle individualità, e questo appare chiaramente nel caso delle homeland, che traspaiono anche attraverso la letteratura, sottoforma di nostalgia per la propria madrepatria, per il luogo dal quale si proviene e da cui magari si è stati costretti ad emigrare, nostalgia per qualcosa che non c’è. Inoltre, le definizioni etnologiche hanno avuto spesso nel corso della storia un’importanza politica, attraverso l’uso strumentale dei termini patria, nazione, minoranza, appartenenza al territorio (vedi l’invenzione delle lingue nazionali di Uzbekistan, Kirghizistan, Kazakistan, Tagikistan, ridisegnate in epoca staliniana con precisi scopi politici). Questo è il motivo per cui servono competenze diverse: lo storico tradizionale affiancato allo storico dell’attualità, entrambi interpreti della storia da due punti di vista diversi." Come si riflette questo incrocio di spinte centrifughe e centripete nella traduzione? "Tradurre non è solo prendere il significato di un testo e trasporlo in un’altra lingua: tradurre è capire culture, tradizioni, civiltà, rinominare le cose, ridare una definizione al mondo e questa è un’impresa estremamente complessa. La polarità fra localismo e globalismo si riflette sicuramente nel condizionamento del traduttore: lo scopo di una traduzione, la natura del testo da tradurre (che si tratti di un testo letterario, scientifico...) oppure condizionamenti politici, ideologici, sentimentali di varia natura. In ogni caso, quando ci sono dei transiti testuali da un piano linguistico ad un altro, queste trasmissioni comportano sempre dei passaggi e delle trasformazioni inevitabili." Molte società tendono a realtà multiculturali, spesso perché mete o crocevia di correnti migratorie. Si tratta di un processo di spersonalizzazione oppure il senso di appartenenza ad una nazione/homeland non è influenzato da tutto questo? "Questa del declino delle diversità è una questione fondamentale. È un dato di fatto che le comunità culturali vadano verso l’omogeneizzazione e questo può avere degli indubbi aspetti positivi. D’altra parte il rispetto delle diversità, la loro comprensione, un’integrazione che rispetti la specificità delle minoranze che accogliamo sono assolutamente necessari. La mancanza di questo rispetto reciproco ha una storia molto antica di ghetti, separazioni volontarie o involontarie, cittadelle, Chinatowns, i cosiddetti luoghi delle minoranze. In sostanza, siamo ad un bivio: dobbiamo scegliere se accettare la convivenza con minoranze e con razze diverse e l’arricchimento che questo comporta oppure se per noi è prioritario conservare una italianità, una francesità, una germanità che sono, in realtà, concezioni abbastanza astratte perché anch’esse fortemente composite o risultanti comunque da diverse tradizioni del passato. Oggi si parla, anche un po’ retoricamente, della condizione di essere cittadini del mondo, ma questo tipo di globalità e di appartenenza alla comunità umana esiste da sempre. Forse nell’antichità costituiva una reazione alla natura, per esempio. Ad oggi probabilmente esiste per cercare di creare una struttura sociale che sia più moderna e adatta alle nostre esigenze. Per questo bisogna operare come dei traduttori: bisogna mediare. Il traduttore è un mediatore, un interlocutore che permette alle idee di transitare dalla mente di un individuo a quella di un altro e fa in modo che vengano se non acquisite, almeno tollerate." Per quanto riguarda l’Italia, qual è il punto di vista di un accademico come lei che fonda i propri studi sul multiculturalismo, sul processo di apertura o, meglio, di non apertura che si sta verificando nella società attuale? "L’Italia è un Paese molto complesso: possiede un’unità linguistica che in realtà, come sostiene Tullio De Mauro, nasconde infinite varietà regionali e locali. In questo insieme di diversità così articolate, sicuramente il nostro Paese costituisce un interessantissimo case study, paragonabile alla Germania sotto questo aspetto. È proprio in queste situazioni che il lavoro di traduzione svolge un ruolo importantissimo nel valutare la ricchezza del nostro patrimonio linguistico e culturale, e dovrebbe essere usata come strumento non conflittuale ma di valorizzazione. Gramsci ad esempio parlava della questione meridionale, che esiste ancora oggi, assieme alla neonata questione settentrionale. Se vogliamo capire dove sta andando la società italiana, facciamolo partendo dalle diversità, integriamo in questo discorso quelli che sono aspetti fondamentali della modernità, come l’immigrazione. Fino a trent’anni fa erano gli Italiani ad emigrare, oggi si trovano ad accogliere migranti, quindi bisogna che diventiamo dei buoni interpreti di questi nuovi ospiti che lavorano e producono ricchezza per noi e che devono essere ricambiati in tal senso con una comprensione onesta e corretta delle loro civiltà."

Mariavittoria Petrella - Direttore: Alberto Manco