I sogni portati da un filo. Come nascono gli aquiloni cinesi

 

I sogni portati da un filo. Come nascono gli aquiloni cinesi

Aquilone (Foto: Web Magazine d'Ateneo)

Non solo un’attività ludico-ricreativa o una risorsa salutare di pratica sportiva: l’aquilone ha rappresentato anche un importante mezzo di comunicazione tra l’interno e l’esterno delle città, e un'arma da guerra

 

 

 

 

 

“Dov’è finito l’homo pekinensis?” è la domanda da cui si parte giovedì 9 febbraio nella sala 8.1 del Palazzo delle Arti di Napoli: Liu Manman, docente di cinese presso l’Istituto Confucio dell’Orientale, raccoglie la sfida con un intervento intitolato “I sogni appesi a un filo. Come nascono gli aquiloni cinesi”: partendo dal presupposto che negli anni sono stati costruiti aquiloni di materiali molto diversi, con un usi molto diversi anche a seconda delle differenti aree geografiche cinesi, Manman ha mostrato come – inaspettatamente rispetto alle odierne abitudini legate a uno strumento che per ovvie ragioni viene associato al mondo dell’infanzia – l’aquilone venga utilizzato innanzitutto con un uso strategico, quello di sorvolare la città, allo scopo di assicurarne la difesa militare. Quello che incuriosisce – insiste Manman – è come, oltre a costituire un passatempo, un’attività ludico-ricreativa, una risorsa salutare di pratica sportiva, l’aquilone abbia rappresentato anche un importante mezzo di comunicazione tra l’interno e l’esterno delle città, nonché un’insospettabile e potentissima arma da guerra.

Il significato culturale dell’aquilone in Cina resta però sicuramente più lirico e ispirato: oggi costituisce di fatti una possibile connessione con il regno dei morti e un messaggero/messaggio per i propri defunti ma anche un portafortuna/scaccia sfortuna a partire dalla posizione che lo strumento obbliga ad assumere – sguardo rivolto verso l’alto, occhi al cielo e bocca aperta – primo passo per la purificazione della vista e dell’anima e per una terapeutica distensione dei nervi.

La parola è passata poi a Luisa Prudentino, sinologa e scrittrice, esperta di cinema cinese, che ha presentato una carrellata di estratti di film per un contributo intitolato “Dal colletto alla Mao ai colletti bianchi” al fine di illustrare le trasformazioni socio-culturali più salienti della società cinese attraverso il cinema che – afferma Prudentino – ne costituisce sicuramente il riflesso più fedele.

Cina (1972) di Michelangelo Antonioni e “La farmacia”, episodio della colossale opera di circa 12 ore di Joris Ivens Come Yukong spostò le montagne (1976) aprono l’analisi di Prudentino mostrando fondamentalmente il passaggio dall’economia socialista all’economia di mercato che ha interessato la Cina. Con L’incidente del cannone nero (1987) di Huang Jianxin è stata affrontata poi la tematica della relazione tra individuo e Stato in un momento di importante innovazione del Paese, visto con un’insolita – dato il periodo – ironia del regista. Il distretto di Tiexi (2003) di Wang Bing e Looking for a job in the city (2003) di Ying Ning sono documentari serviti invece come cartina al tornasole di una forte diseguaglianza sociale evidenziata dall’importante divario esistente tra città e campagna. L’analisi si è poi spostata sui ruoli emergenti e sulle attuali figure comparse con l’avvento di città dal volto nuovo: professionisti, manager, «colletti bianchi» sottoposti a stress sempre più pressanti sono i protagonisti di Welcome to destination Shanghai (2003) di Andrew Y-S Cheng, Il miliardario rosso (2005) di Sophie Lepault, A beautiful new world (1999) di Shi Runjiu e Being and nothingness (2008) di Jie Han.

La Tavola Rotonda che ne è conseguita con ancora Luisa Prudentino, Paola Paderni, professoressa di Storia e istituzioni della Cina all’Orientale e Annamaria Palermo, organizzatrice dell’evento, ha quindi focalizzato l’attenzione dei presenti sulla Cina come realtà profondamente variegata e come “caleidoscopio di tante immagini” – per usare una definizione di Prudentino – in cui nessuno di queste riesce a mettersi più in luce delle altre.

La ricca giornata si è poi conclusa con la proiezione di Lost on Journey (2010) di Yip Wai-Man e In the Heat of the Sun (1996) di Jiang Wen, film pressoché sconosciuti al di fuori della Cina e sottotitolati per l’occasione da gruppi di studenti di cinese, ma anche con un’importante anticipazione di Palermo sull’edizione 2013 di milleunaCina: “l’anno prossimo il fil rouge della manifestazione – ha affermato la professoressa – sarà la memoria”, un aspetto sicuramente importante per tutti i popoli ma particolarmente problematico per quel che riguarda la Cina e il suo passato. 

Francesca De Rosa

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