Dopo Mubarak. Quale alternativa per l’Egitto?
Dopo Mubarak. Quale alternativa per l’Egitto?
Gennaro Gervasio, direttore del centro di studi per il Medio Oriente e Nord Africa della Macquarie University di Sidney, fa il punto sulla situazione del paese e sugli scenari che potrebbero manifestarsi nel prossimo futuro
Grande malato del Medio Oriente. Così molti analisti statunitensi, rispolverando una definizione utilizzata un secolo fa per il decadente impero ottomano, definiscono l’Egitto dei nostri giorni. Una metafora efficace che rende inevitabile un’identificazione del paese intero con il suo presidente; Hosni Mubarak , 82enne, guida il paese dall’ottobre dell’81, ovvero dalla morte per assassinio del suo predecessore Anwat Al-Sadat. Ricoverato ad Heidelberg per un tumore, ha lasciato per giorni il paese appeso al filo del suo referto medico. Prevedere cosa accadrebbe se il presidente lasciasse la guida del governo e del paese, a prescindere dalle cause, non è facile. Normalmente nei paesi non democratici è più arduo elaborare delle previsioni. E per l’Egitto questa tendenza si conferma, se prendiamo come prova le definizioni che i politologi creano per definire il sistema di governo dominante: regime autoritario modernizzato, pseudo democrazia, autocrazia.
Le ipotesi si fanno comunque strada. Il "faraone", così viene chiamato Mubarak dai suoi detrattori, nutrirebbe l’aspirazione di passare il testimone al figlio Gamal. Si avrebbe così la nascita di una Jumlukkiya, un misto tra repubblica e monarchia. Del resto il figlio minore del presidente non è l’unico membro della famiglia ad essere attivo politicamente. La first lady, Suzanne Mubarak, è impegnata in numerose attività pubbliche.
A fianco all’ipotesi del paese a conduzione familiare, c’è quella di un altro uomo forte, Mohamed El Barada ‘i, ex presidente dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, accolto come eroe in una manifestazione popolare dello scorso febbraio. Sostenuto da parte della società civile egiziana, ha dalla sua parte l’aura di rispetto conferitagli non solo dall’attività presso l’AIEA, ma soprattutto dal premio Nobel guadagnato nel 2005. Barada’i alza il tiro e come condizione ad uno coinvolgimento diretto nella politica del paese, chiede riforme costituzionali importanti, come la cessazione dello stato di emergenza in vigore dall’assassinio di Sadat. Stato di emergenza che tradotto nella pratica significa limitazione alle azioni d’ opposizione, manifestazioni pubbliche tollerate solo con restrizioni, intercettazioni, arresti. Arresti che hanno colpito l’altro outsider politico, quello della Fratellanza Musulmana, movimento bandito dal potere, ma indiscutibilmente popolare. Anzi, sono in molti a sostenere che i Fratelli Musulmani sarebbero gli unici ad a possedere i numeri necessari per formare una vera opposizione, altrimenti troppo frammentata.
Il discorso sul popolo e la società civile è il punto centrale dell’analisi di Gervasio. Nonostante l’ingombrante presenza di Mubarak, del suo entourage e del suo partito, il Partito nazionale democratico, le pressioni sulla stampa – quella filo-Mubarak è la maggioranza –, questo sistema non è impenetrabile, e proprio dal suo interno provengono segnali di debolezza. "La società egiziana non è un blocco monolitico". A dimostrarlo c’è proprio quel tanto osteggiato ritorno alla piazza, come verificatosi in occasione dell’arresto di un esponente politico dell’opposizione laica nel 2005, l’avvocato Ayman Nour. Non solo la voglia di un cambiamento politico, ma anche le difficoltà economiche in cui versa il paese acuiscono il malcontento. Ancora prima della grande crisi globale del 2008, si è assistito al risveglio delle proteste operaie e delle organizzazioni sindacali dovute all’enorme tasso di disoccupazione, alla povertà diffusa. Proteste che hanno cercato di organizzarsi nel movimento Kifaya,"Basta", e nel movimento giovanile del 6 Aprile. Eppure, avverte Gervasio, bisogna sfuggire da eccessi di ottimismo. La democrazia e la piazza non vanno di pari passo e anzi , la strada per una vera democratizzazione pare ancora lunga. Lo stesso movimento del sei Aprile non ha richiamato in piazza che duecento persone. I media che possono sfuggire al controllo del governo tendono spesso a gonfiare eventi del genere. L’esiguo numero di partecipanti, motivato comunque dalla peculiare situazione interna, non ha impedito la nascita di un sito in memoria del presidio, www.6april.org. Toni cauti anche intorno alla figura di Barada’i, che comunica su Twitter, ottiene il sostegno di Facebook, ma paga una popolarità limitata al ceto più privilegiato. Non da ultimo, paradossalmente, la conquista di una democrazia arriverebbe a costituire un pericolo. Anche l’alleato fedele del più popoloso stato del Medio Oriente, gli Stati Uniti di Bush e Condoleeza Rice, hanno sempre guardato con preoccupazione ad un Egitto libero e per questo più difficilmente controllabile. Appare inevitabile affermare che solo l’uscita di scena di Mubarak e le elezioni presidenziali del 2011 potranno scardinare questa incertezza. Anche l’interessante quesito di un uditore dell’incontro, “Come cambieranno i rapporti con Israele in caso di una vittoria di Barada’i?”, resta senza risposta. Rimane una certezza, l’unica: Mubarak non lascerà il potere se non in punto di morte, ovvero, Inshallah.
Maria Dore