Fotografare la Primavera Araba: intervista a Eduardo Castaldo
Fotografare la Primavera Araba: intervista a Eduardo Castaldo
Dai funerali di Mario Merola alla rivolta egiziana passando per le foto di scena. Il giovane fotografo laureato all'Orientale ci parla della sua esperienza di fotoreporter
Eduardo Castaldo, lei si è laureato in Lingue e Letterature Straniere all'Orientale. Ci vuole parlare della sua esperienza di studente in questa università? Che lingue ha studiato e che tesi ha svolto?
Come lingue ho studiato inglese e russo e mi sono laureato in “Storia del Cinema” con il professor Caprara, con una tesi sui registi inglesi Michael Powell e Emeric Pressburger. L'esperienza all'Orientale è stata bella, soprattutto dal punto di vista umano. Al di là anche di quello che si studiava e di come lo si facesse, è stata un'esperienza che mi ha fatto crescere. Ho avuto la possibilità di conoscere tante persone. Le cose che mi hanno formato le ho fatte tutte quante intorno all'Orientale. Anche per quanto riguarda lo studio in senso stretto, mi sono piaciute tante cose e ho trovato quindi il mio percorso di studio. Col tempo ho individuato le cose che mi interessavano e, alla fine, dal punto di vista degli studi ho visto molto più senso nelle cose che facevo.
Lei ha pubblicato suoi lavori su importanti magazine italiani e stranieri. Quanto trova utili oggi, per il lavoro che svolge, le cose che ha imparato all'Orientale?
Molto utili e non deve sembrare strano. Io a suo tempo ho scelto l'indirizzo linguistico-glottodidattico nell'àmbito del Corso di laurea in Lingue per cui ho studiato tutto ciò che riguardava la linguistica e il linguaggio. A un certo punto ho cominciato a interessarmi di cinema per cui cercavo di rapportare al linguaggio dell'immagine qualsiasi cosa studiassi in àmbito linguistico e in questo senso il passaggio è stato molto più breve di quello che si possa credere. All'inizio avevo pensato anche di continuare con una carriera didattica, senza farmi scoraggiare dalla situazione terribile in cui versava già allora il settore. Poi, a un certo punto, ho sentito l'esigenza di mettere in pratica tutta la teoria che avevo fino a quel momento accumulato e la fotografia era il mezzo più veloce e più economico. Il cinema, diciamo, sarebbe stato un poco più pretenzioso e più difficile da realizzare mentre la fotografia è un mezzo immediato. Per cui posso dire che c'è un legame diretto fra le cose che ho studiato e il lavoro che faccio oggi.
Dai funerali di Mario Merola alla rivolta egiziana, dall'operazione Piombo Fuso alle Vele, lei ha fotografato alcuni importanti momenti e luoghi della vita napoletana e mediorientale. Come ha inteso il suo ruolo di fotografo in queste diverse situazioni? Che ruolo deve avere il fotografo per lei?
Il ruolo del fotografo è opinabile. Con la fotografia tu vai in determinati contesti, ti prendi il diritto di fare delle foto e di utilizzarle; questo a maggior ragione se vai in contesti drammatici come per esempio Gaza dopo i bombardamenti israeliani e il massacro che c'era stato. Tu vai lì, fai le tue foto, dopodiché torni a casa e le pubblichi, le vendi, guadagnandoci sia come lavoro sia come visibilità. Torni a casa e sei anche “figo”perché sei un fotoreporter. Penso che ci sia molta ipocrisia tra i fotografi in questo senso. Ripeto: il lavoro del fotografo è molto discutibile; spesso lo si dipinge come il lavoro di un eroe ma io, molte volte, lo vedo più come il lavoro di uno sciacallo. In molti casi l'atteggiamento delle persone è quello. Si può mediare in questo senso quando tu hai un'etica tua, umana, nel rapportarti con le persone, sapendo che quando fai una foto a una persona stai prendendo qualcosa da lei e in un certo modo le sei debitrice, chiunque essa sia. Non c'è un modo per approcciarti con più rispetto. Questo non toglie che la persona possa anche non accorgersi del tuo rispetto. Quando ciò è accaduto io non ho mai preteso alcunché né sono stato insistente. Quando una persona non vuole farsi fotografare io capisco che può non essere a suo agio davanti alla macchina fotografica e in questo caso è difficilissimo che io possa insistere, a meno che non ci sia un motivo davvero valido per fotografarla.
Qual è stata l'accoglienza della gente nei diversi contesti in cui lei è stato stato?
Sono stato in contesti molto diversi. Piazza Tahrir era la situazione probabilmente più bella che io abbia vissuto in vita mia. C'era un'accoglienza, una gentilezza, una civiltà, in piazza, fra i manifestanti, che non ho mai visto altrove. Era il posto più bello dove stare in quel momento. Per questo, per quanto dall'esterno le immagini possano sembrare crude e dure, io ho cercato di lavorare sull'aspetto umano e questo era straordinario. Sì, credo proprio che in quel momento piazza Tahrir fosse il posto migliore dove stare sia come fotografo sia umanamente, su questo non c'è dubbio.
Lei è partito due giorni dopo gli eventi del 25 gennaio che hanno portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak. Quindi ha visto la sollevazione egiziana sin dal suo nascere. Cosa pensa del modo in cui è stata trattata dai media italiani? Vi è stata una giusta percezione del movimento oppure è stata fraintesa e interpretata secondo schemi precostituiti?
È proprio quello che ho riscontrato tornando dall'Egitto e venendo qui in Italia dopo aver vissuto questa cosa dall'interno. Il mondo arabo e le persone che erano in piazza erano per la prima volta assoluti protagonisti, erano loro a dettare le regole. Tutti, anche gli Stati Uniti e le altre potenze, venivano dietro e seguivano la piazza. Per cui ero dentro questa situazione e così l'ho vissuta, con l'entusiasmo che c'era ma consapevole anche dei limiti che ci potevano essere. Certo, parlo in base alla mia esperienza, ma nel mondo arabo non avevo mai visto nulla di simile e nulla di così civile avevo mai visto nel mondo occidentale. Dopodiché sono venuto in Italia dove ho riscontrato nei media e nelle persone una percezione differente. In tutti i miei amici, anche quelli conosciuti all'Orientale, tutte persone che sono attive politicamente, che hanno una sensibilità particolare, ho riscontrato un approccio che è obbligatoriamente quello di chi vede le cose dall'esterno. Si continuava a dire “sì ma gli americani faranno questo e faranno quello” mentre io avevo vissuto un'esperienza in cui erano gli arabi, era la gente, a fare qualcosa senza nessuna guida esterna. In quel momento l'atteggiamento prevalente era quello di interessarsi della propria situazione cioè di quali conseguenze potesse avere questa cosa rispetto a noi piuttosto che ragionare sul fatto che questa gente si stesse richiamando ai propri diritti e lo stesse facendo in maniera civile. Si vedeva sempre una sorta di complotto dietro alle rivolte e si immaginava che si sarebbe visto il peggio dove io, dall'interno, vedevo il meglio. Il mondo arabo fino a prima di gennaio era un disastro quanto a libertà, ed all'improvviso è rifiorito. Quando venivo in Italia invece vedevo persone che, piuttosto che essere ottimiste per un segnale fortissimo e inaspettato, pensavano solo a come questa vicenda avrebbe potuto avere conseguenze per la nostra stabilità.
Come è stato percepito dal popolo egiziano il ruolo dei media occidentali?
In piazza Tahrir tutti i giornalisti sono stati trattati con una civiltà, con un rispetto e con un'attenzione che veniva sì dalla consapevolezza che potessero servire alla conoscenza di quanto stava accadendo ma anche dalla grande civiltà della situazione. I giornalisti, come tutti quelli che erano lì in piazza con scopi non negativi rispetto alla rivoluzione, venivano trattati con lo stesso rispetto. Addirittura, in un episodio, sono stato letteralmente salvato. Eravamo io e Pietro Masturzo, un altro fotografo napoletano che ha vinto il World Press Photo lo scorso anno. Eravamo in piazza Tahrir quando ci fu l'invasione dei cammelli nella piazza. A un tratto entrarono migliaia di criminali pagati da Mubarak e cominciarono a dare la caccia ai giornalisti [il 2 febbraio 2011 i sostenitori di Mubarak caricarono la folla che protestava in piazza Tahrir causando numerosi feriti N.d.R.]. Noi non ci eravamo resi conto di niente: arrivarono due ragazzini e ci tirarono di peso per portarci con loro; erano due ragazzini di 15 anni e ci tirarono via quando venimmo aggrediti, portandoci in una stradina o un portone riparato. Subito le persone fecero un cordone per non fare vedere che c'erano dei giornalisti nascosti in quel portone. Nel frattempo questi ragazzini andavano in giro nella piazza per cercare i giornalisti e portarli in salvo.
Qual era l'atmosfera che si respirava in piazza?
Era un'atmosfera bellissima che ho ritrovato anche quando sono tornato a novembre: c'era un senso di civiltà che noi, in Occidente, non sempre immaginiamo. Ho imparato di più in quella piazza che in qualsiasi altro posto: il rispetto, la libertà. Quando sono andato via da lì, a febbraio, mi chiedevo se quei diciotto giorni cosi straordinari non fossero qualcosa di finito e di irripetibile. Sapevo benissimo, come lo sapeva la gente in piazza, che la caduta di Mubarak non sarebbe stata di certo la fine o la vittoria ma che sarebbe stato l'inizio di un percorso lunghissimo e difficilissimo. Quando sono tornato a novembre scorso, nonostante ci siano stati questi ultimi scontri fortissimi e nonostante la rivoluzione stia vivendo un periodo difficile, con delle defezioni, ho ritrovato lo stesso spirito in piazza che avevo trovato a gennaio. Questo mi ha fatto molto piacere.
Il 17 dicembre 2010 Mohammed Bouazizi si è dato fuoco a Sidi Bouzid dando inizio alla cosiddetta Primavera Araba. Da allora sono caduti i regimi di Tunisia, Egitto e Libia. Lo Yemen si avvia verso la transizione. Tuttavia in Egitto continuano le proteste e in Siria la situazione è in bilico. Che bilancio dà di questo risveglio a un anno esatto dal suo inizio?
È presto per fare bilanci definitivi. Di sicuro, per come era finito il 2010, parlando di mondo arabo non può che essere stato un anno bellissimo e straordinario rispetto ai venti o trent'anni che c'erano stati in precedenza. Rispetto invece agli esiti di questa rivoluzione, non possiamo essere facilmente ottimisti. Di certo abbiamo vissuto esperienze che valgono anche per il momento: la bellezza e la libertà che si creano hanno un senso di per sé, a prescindere da quello che succederà. Peggio di come stavano non potranno stare. Che questo destabilizzi il mondo, ben venga visto che il mondo che viene destabilizzato è quello che noi abbiamo utilizzato a nostro favore fino ad ora. La vicenda egiziana sicuramente destabilizzerà tanto e per questo la situazione è drammatica in questo momento. Se esplode l'Egitto non è roba da poco. Per quanto i macro interessi delle dittature siano ancora in piedi, sicuramente non hanno il controllo della situazione, ed è questo che stanno cercando di riottenere. In Egitto la rivoluzione è durata 18 giorni; in Siria sono dieci mesi che la gente si fa ammazzare. Questo significa che scendi in piazza, ti sparano addosso, ti ammazzano e, ciò nonostante, il venerdì successivo scendi di nuovo in piazza, consapevole che ti spareranno addosso. Questo è il grado di coscienza a livello collettivo che noi proprio non percepiamo: decidere che io sono disposto a morire, tutti i giorni, senza alcun pentimento è qualcosa che ho visto con i miei occhi ed esiste realmente. Per cui c'è ancora molta strada da fare e sicuramente sarà dura però le energie che sono state messe in campo in quest'anno sono straordinarie.
Quanto ha influito il suo essere napoletano sul suo stile e sul suo sguardo?
Devo tanto al mio essere napoletano, soprattutto la capacità di rapportarmi umanamente alle persone. Molto spesso, come fotografo, vai in contesti difficili: dalle Vele di Secondigliano, dove sei con gli spacciatori e ci passi le giornate a situazioni più diverse. Il napoletano ha la capacità di discernere il pubblico dal privato nel senso che il rapporto che noi napoletani siamo abituati a stabilire con la gente è innanzitutto un rapporto umano. In una società mediatizzata come la nostra l'idea che lo spacciatore possa avere un rapporto normale con te è una cosa assurda. Per un napoletano non lo è. Ovunque tu vada sei abituato a rapportarti con le persone prescindendo dall'idea sociale che tu hai di loro. Per questo ti puoi rapportare con tutti, con i criminali cosi come così come con dei rivoluzionari o con delle milizie. Questa è una cosa che mi ha aiutato sicuramente tantissimo. Da ciò deriva la capacità di essere disinvolto anche nei contesti più problematici che secondo me è alla base di questo lavoro. Se tu vai in un contesto difficile e non sei disinvolto è molto più facile che ti accada qualcosa. Questo dipende dall'energia che tu emani. Certo, ti può sempre succedere di tutto, non è che sei sempre al riparo dalle cose, però l'essere a proprio agio anche in situazioni drammatiche è fondamentale. Se non sei a tuo agio in un posto è meglio che non ci stai. È capitato che quando io non mi sono sentito a mio agio sono rimasto a casa.
In quale occasione le è capitato?
Una mattina quando lavoravo su Scampia dovevo andare, ma non mi sentivo di farlo e quindi non ci andai. Mi è capitato anche in piazza: quando sentivo che la situazione energeticamente non mi convinceva non sono andato a fotografare nonostante sembrasse necessario andarci.
Di cosa si occupa adesso?
Sono vissuto a Gerusalemme fino a settembre e adesso sono a Napoli. È possibile che mi sposti in Egitto in quanto la mia ex compagna, che lavora per una ONG e con la quale ho un figlio, potrebbe andarvi a lavorare. Sono stato a Ramallah fino a giugno-luglio. Poi sono tornato a Napoli dove ho fatto le foto di scena del film di Matteo Garrone che uscirà verso marzo-aprile. E direi che questa parentesi cinematografica è stata proprio una vacanza.
Quali sono i suoi progetti per il futuro? Di cosa vorrebbe occuparsi?
Dal punto di vista fotogiornalistico vorrei seguire ancora le rivoluzioni arabe, questa energia che c'è ancora, che mi ha affascinato e alla quale sono legato affettivamente come penso si capisca da quello che ho detto. Chiaramente è una cosa che mi interessa seguire. Non è semplice come lavoro ma umanamente è una cosa piacevole.
Poi vorrei lavorare un po' di più col cinema, sempre a livello di foto di scena, perché non è male come lavoro: molto più rilassante. Ma ho anche progetti differenti. In questo momento bisogna ottimizzare le risorse. Pur se la fotografia è in totale crisi io uno spazio me lo sono riuscito a ritagliare. Tra l'altro sono freelance per cui lavoro direttamente con i giornali senza alcuna mediazione di agenzie. Ho sempre rifiutato di farlo e mi trovo abbastanza bene. Per quanto attraversi una crisi, la fotografia è comunque qualcosa che puoi costruire da solo, senza dover contare su soldi altrui né su altre cose.
Perché parla di crisi della fotografia?
Dal punto di vista del fotogiornalismo, se quindici anni fa avessi venduto la quantità di foto e i lavori che ho venduto negli ultimi tre anni avrei potuto comprarmi un paio di appartamenti. Oggi ci vivo tranquillamente e mi reputo fortunato.
A cosa è dovuta questa crisi?
È dovuta al fatto che il digitale ha messo lo strumento in mano a tantissime persone. Giustamente. Questo però ha fatto in modo che, se prima su cento fotografi ce n'erano dieci bravissimi, oggi sono cinquantamila, e la proporzione è la stessa. Questo ha portato a un'offerta di immagini maggiore. Prima in una manifestazione tu eri l'unico fotografo. Oggi è diverso. Ad esempio, nella manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma c'erano 740 fotografi! Ci sono tutte le immagini, di tutti quanti, da tutte le angolazioni e riuscire a lavorare in modo differente dagli altri in questi contesti è abbastanza difficile. In tutta questa offerta la tua foto è una delle tante, anche se di qualità migliore. Per cui se un giornale deve scegliere, a parità di prezzo sceglie la tua ma se deve spendere il doppio per comprare la tua foto, è difficile che ciò accada. A questo si aggiunge la crisi dell'editoria di cui è causa non secondaria Internet, per cui i giornali hanno sempre meno soldi e le risorse sono limitate.
Clicca qui per visitare la pagina del sito del World Press Photo relativa ad Eduardo Castaldo.
Salvatore Chiarenza - Direttore: Alberto Manco