Franco Arminio: “La nostra cassaforte non è la banca ma il paesaggio”
Franco Arminio: “La nostra cassaforte non è la banca ma il paesaggio”
“Il luogo è la nostra farmacia”
Franco Arminio: “Bisogna andare dietro il paesaggio. La nostra cassaforte non è la banca ma il paesaggio”
“Il luogo ha la capacità di attraversarci, di illuminarci, di produrre una luminescenza interiore che ci permette di capire cosa siamo e cosa vogliamo: il luogo come la nostra farmacia”
Franco Arminio, le Giornate di studio che si svolgono dal 24 al 26 marzo a Procida sono dedicate a “Comunicazione e Ambiente”. Su che cosa verte il suo intervento?
“Il titolo è Comunità e Autismo corale. Il senso di comunità che svanisce e quello di autismo corale che cresce.”
Come considera il rapporto tra la quantità e la qualità delle informazioni che circolano su comunicazione e ambiente?
“Molto insufficiente. Nei telegiornali, per esempio, queste informazioni dovrebbero avere uno spazio maggiore e invece sono relegate a semplice curiosità. Non ci si rende conto che cose come l’aria e l’acqua riguardano la vita reale, la vita quotidiana delle persone.”
Ci sono a suo avviso eco-mode orientate dalla comunicazione di specifici canali massmediali?
“Se una cosa è positiva resta tale anche se diventa di moda, questo non è un grosso problema. Purtroppo dobbiamo correre questo rischio piuttosto che trovarci nella situazione che non se ne parli proprio.”
Come è rappresentato in Italia sul piano della comunicazione il quadro europeo delle reali emergenze ambientali ?
“Per me c’è una grande emergenza che riguarda tutto il pianeta. Continuando a questo livello di sviluppo, il pianeta, a un certo punto, è destinato inevitabilmente a collassare. Ci sarebbe dovuto essere già in passato un grande ripensamento e invece ci si è comportati come se la posta in gioco non fosse il nostro pianeta e noi stessi. Sarebbe davvero pericoloso continuare a sottovalutare l’emergenza in cui siamo immersi, un’emergenza che per la prima volta nella storia dell’uomo pone a rischio la nostra specie e tutte le altre.”
Politiche ambientali, finanza, economia. Sponsorizzazioni, preorientamento della percezione positiva del marchio. Ingenti investimenti di tipo comunicazionale spingono a consumare risorse primarie, oltre quelle effimere. Un esempio che caratterizza l’Italia: le acque minerali. Cosa dice a questo proposito? E avrebbe qualche altro esempio da suggerire?
“Non so se ci sono altri fenomeni di questo tipo. Questo fa parte della modernità fallita, c’è ancora la vecchia idea di rottamare la civiltà contadina: l’acqua di fonte ci fa venire alla mente tutto il nostro passato, le nostre radici. Quello delle acque minerali è solo un piccolo esempio di un atteggiamento culturale profondamente sbagliato, una sorta di rottamazione prolungata del nostro passato.”
Uno dei punti di partenza del Progetto OASI è l’idea che «Tutto è mercato». L’obiettivo è Invertire «la rotta». Il paesaggista Gilles Clément nel Manifesto del Terzo Paesaggio scrive che bisogna «valorizzare la crescita e lo sviluppo biologici, in opposizione alla crescita e allo sviluppo economici». Questa è una strada perseguibile o è utopia?
“È una strada perseguibile, anzi è l’unica strada possibile, anche se non risolve tutto in un giorno. L’altra strada è stata fallimentare perché ha portato a grandi disuguaglianze economiche e anche là dove ha portato a un benessere materiale non ha condotto a un benessere che possiamo definire spirituale. Prima ce ne rendiamo conto e meglio è.”
Ancora Clément sottolinea la necessità di «rovesciare lo sguardo rivolto al paesaggio in Occidente». Da tale punto di vista, lei rappresenta uno delle figure fondamentali di questa battaglia. Che cosa si può fare per questo rovesciamento? Da dove partire?
“Bisogna partire da una forma di attenzione verso i luoghi in cui si vive. In Italia abbiamo voltato le spalle al paesaggio, lo abbiamo considerato una specie di tappeto, invece il paesaggio va guardato come una creatura vivente. Ciò riguarda non solo l’atteggiamento delle singole persone, ma anche quello dei quadri normativi, della politica. È sempre un problema di postura culturale. Bisogna andare dietro il paesaggio. La nostra cassaforte non è la banca ma è il paesaggio.”
Andrea Zanzotto, nel libro «In questo progresso scorsoio», parla di un Nordest malato di ricchezza, di un’ Italia dove la pressione del fondamentalismo globalista ha messo in moto una macchina che schiaccia e annienta ogni cosa, e aggiunge che in tal modo si arriva a percepire un disagio profondo, una disumanizzazione, la rottura dell’equilibrio delle nostre campagne e dei nostri paesi. Crede che questa analisi sia giusta? E la sua Irpinia riesce, in qualche misura, a mettersi al riparo da questa deriva?
“Assolutamente sì. Zanzotto non solo è un grande poeta, ma anche una delle figure più lucide del panorama intellettuale italiano. A conferma di quello che dice, c’è da aggiungere che negli ultimi anni il modello del Nordest è andato in crisi, le fabbriche chiudono anche lì e dunque quel benessere alla fine si è dimostrato effimero. Questo conferma che altri modelli di civiltà danno risultati meno clamorosi sul tempo breve, però hanno una resistenza maggiore. Al Nord il passaggio dalla civiltà contadina alla modernità è stato lento e graduale, in Irpinia, invece, questo passaggio è stato accelerato dal terremoto, per cui ci troviamo in una sorta di limbo in cui non abbiamo né la civiltà contadina, né la modernità: loro almeno hanno i guasti e i benefici della modernità, noi solo i guasti. C’è stato un passaggio interrotto per cui non abbiamo né la forza dell’adulto, né la grazia del fanciullo.”
Il filosofo James Hillman scrive che bisogna guardare all’anima dei luoghi che «è dovuta sia alla percezione del clima e della geografia, sia all’immaginazione: per questo è necessario stare a lungo in un luogo perché l’immaginazione possa rispondere». Quindi non basta che il nostro sguardo si posi sul paesaggio, ma è necessario che esso ci parli di sé, si racconti. È d’accordo? Con quale sguardo Lei ritiene di avvicinarsi a un luogo?
“Dipende da quello che si vuole fare, non c’è una regola fissa. A me a volte interessa dare uno sguardo fuggevole, vedere più luoghi in un solo giorno. È chiaro che la residenza a oltranza, e questo è il mio caso, produce una conoscenza del luogo che è diversa dalla fruizione fugace. Bisogna avere un rapporto fruttante con il luogo, di attenzione ma in qualche modo anche di distacco. Se si restasse sempre di fronte allo stesso paesaggio, si finirebbe per impazzire. Ci sono persone che hanno sempre vissuto nello stesso posto ma questo non significa che hanno un rapporto sano con quel luogo.”
Ancora Hillman parla del «disorientamento della nostra epoca che attanaglia l’Occidente a causa dell’amnesia – la perdita della memoria dovuta agli eccessi del costruire, dello sviluppo, degli spostamenti. La distruzione dei palazzi, come oggi si fa in continuazione per ristrutturarli, migliorarli, equivale a una lobotomia, a una perdita di cellule cerebrali: è una perdita di ricordi e immagini». Raffaele Milani, docente di Estetica all’Università di Bologna, scrive che «per guardare veramente il paesaggio dobbiamo affidarci al racconto della memoria affettiva» (nel libro «Il paesaggio è un’avventura»). Crede che la perdita di questa memoria sia un prezzo troppo alto da pagare in cambio del progresso? Nei piccoli paesi che lei attraversa, la memoria dei luoghi è importante?
“In Italia non si può parlare di un fenomeno di distruzione dei palazzi, piuttosto vedo la costruzione continua di nuovi edifici e il consumo scellerato di suolo agricolo, e ciò andrebbe fermato. È chiaro che la memoria è fondamentale e il problema delle nuove generazioni è che non hanno un rapporto con la memoria, anche perché i luoghi cambiano e dunque non si può avere memoria quando non c’è più qualcosa di cui avere memoria: è un meccanismo molto delicato. Paradossalmente i luoghi più minacciati sono quelli in cui si possono inventare delle cose e nuovi modi di abitare, in cui, però, la memoria convive anche con l’immaginazione. C’è bisogno di un doppio sguardo: uno rivolto in avanti e uno rivolto indietro. Questa è una postura che difficilmente può essere applicata alle aree metropolitane, dove si guarda solo avanti, invece in alcuni paesi è ancora possibile questo doppio movimento. Si tratta di una situazione di vantaggio e paradossalmente nella mia percezione il paese, che è sempre stato considerato nella modernità il luogo della retroguardia, diviene il luogo dell’avanguardia.”
L’antropologo Marc Augé scrive: «il mondo esiste ancora nella sua diversità. Ma questo ha poco a che vedere con il caleidoscopio illusorio del turismo. Forse uno dei nostri compiti più urgenti consiste nell’imparare di nuovo a viaggiare, eventualmente nelle nostre immediate vicinanze, per imparare di nuovo a vedere» (in «Disneyland e altri non luoghi»). Crede che oggi sia necessaria un’educazione al vedere, una rinnovata alfabetizzazione dello sguardo?
“Sono d’accordo ed è quello che faccio, dal momento che viaggio soprattutto nei dintorni: vivo in un paese dell’Appennino e da anni non faccio altro che girare in questo paesaggio. Io sono sempre nello stesso luogo ma ogni giorno vedo cose diverse; i grandi viaggiatori, invece, che vanno a Shangai, a New York, a Londra credono di andare in luoghi diversi ma in realtà vanno sempre nello stesso luogo: le grandi metropoli è come se fossero tanti piccoli pezzi di un unico corpo; nei piccoli paesi c’è, invece, maggiore diversità.”
Nei suoi libri, Lei parla di una malattia che ha colpito molti paesi italiani in cui «l’ebbrezza di stare al mondo è svanita» e i luoghi non hanno più una propria vita. Questo, nelle città, è più difficile coglierlo, perché mascherato dall’ «essere indaffarati» e da molteplici forme di distrazione. Si può dire che la sublimazione di questo processo sia nel fenomeno dei «non luoghi» descritto da Augé, dove non ci sono più persone che interagiscono in uno spazio vivo, ma individualità solitarie che si relazionano soltanto con i testi dei cartelli e delle insegne o con istituzioni?
“Augè ha iniziato la sua riflessione parlando degli aeroporti, in realtà il concetto di non-luogo lo si può estendere ormai a tutta la città, a quella che una volta era la piazza come luogo di socialità. Questo è il pericolo che corriamo ed è ciò contro cui mi batto: impedire che i luoghi spariscano e per fare ciò è necessario che siano presidiati, accuditi.”
In un racconto della raccolta «L’artefice» Borges descrive un uomo che «si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di provincie, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto. »”
Per lei vale lo stesso? Si può dire che attraverso i suoi viaggi, Lei costruisce anche la sua identità? Penso al suo Zibaldone alla fine del libro Vento forte tra Lacedonia e Candela, dove dice «alla fine è il paese che mi vede, mi dice qualcosa di me che non sa dirmi nessuno».
“Sì. Bisogna essere porosi, lasciarsi attraversare, usare i luoghi come un cannocchiale per vedere dentro noi stessi, ma per fare questo è necessario aprire le porte del nostro corpo. Il luogo ha la capacità di attraversarci, di illuminarci, di produrre una luminescenza interiore che ci permette di capire cosa siamo e cosa vogliamo: il luogo come la nostra farmacia.”
Da pochi giorni è stato pubblicato il suo nuovo libro «Oratorio Bizantino». Di che cosa si tratta?
“Non si tratta di un libro paesologico o di reportage. È piuttosto una raccolta di testimonianze di difesa dei paesi e anche esempi di come si possono usare in maniera nuova i paesi. Il mio è un lavoro di osservazione ma anche di resistenza, di militanza politica: guardare i miei luoghi mi addolora ma allo stesso tempo mi spinge a combattere.”
Lei utilizza molto il web. Ha anche un profilo Facebook che aggiorna costantemente con brevi scritti. Crede che internet possa giocare un ruolo importante nella formazione di una coscienza critica nei ragazzi che ne fanno uso?
“Non saprei. Si tratta di uno strumento di questa epoca e parto sempre dall’idea che non bisogna portare il broncio alla propria epoca. Oggi tutti i giovani usano internet e molti stanno su Facebook, per cui uno scrittore deve avere l’umiltà di starci e soprattutto il coraggi di confrontarsi con questi ragazzi. Molti scrittori adottano un atteggiamento snob verso il web, ma credo che il loro vero problema sia di non possedere una lingua che regga quello strumento: è necessaria la capacità di comunicare qualcosa anche in due righe, e sento che la mia lingua non è fuorigioco rispetto a questo nuovo spazio di scrittura.”
Ci spiega cosa è Cairano 7X?
“È il tentativo di rovesciare il sillogismo piccolo paese–piccola vita e farlo diventare piccolo paese–grande vita: portare in un paese che sta morendo nuovi residenti legati all’arte, al cinema, all’architettura. I paesi non hanno bisogno di turisti ma di residenti. Intrecciare i saperi tradizionali, come potare un albero o raccogliere le erbe, con i nuovi saperi: non si capisce perché in un piccolo paese non possa abitare un architetto o un programmatore di computer; in Italia siamo ancora legati all’idea che le cose importanti si possano fare solo in città. È un’ottica che bisogna sovvertire radicalmente. Da questo punto di vista io mi sento un rivoluzionario e voglio sfasciare le barricate della desolazione in cui si stanno chiudendo i nostri paesi.”
http://comunitaprovvisoria.wordpress.com/
Aniello Fioccola