La storia del libro in America negli ultimi due secoli
La storia del libro in America negli ultimi due secoli
Gli autori, i curatori, gli editori e i lettori: il mondo che vive intorno ai testi
Il 28 maggio, nella sede di Palazzo Du Mesnil, si è svolta la Giornata di Studio “Writing, Publishing, Reading. The History of the American Book Culture from the 19th Century to the Present organizzato da Maria Giovanna Fusco e Donatella Izzo del Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati, con la collaborazione del Consolato Generale degli Stati Uniti d'America di Napoli. Come ricordato da Fusco in apertura, è stato proprio il Consolato ad avvisare il gruppo di anglo-americanisti dell'Ateneo della presenza in Italia di Wayne Wiegand, uno dei massimi esperti sulla cultura e sulla storia del libro nell'America moderna. Presenza messa subito a frutto con un invito a partecipare alla Giornata di Studio a cui hanno preso parte anche Pierre A. Walker, visiting professor all'Orientale, Sonia Di Loreto e Anna Scannavini.
Wayne Wiegand, dopo aver ringraziato le organizzatrici, ha dato inizio al proprio intervento introducendo il tema della relazione: la storia del libro in America visto attraverso lo sguardo dei lettori, in particolare di quelli che frequentano le biblioteche pubbliche. Secondo Wiegand, infatti, dato che spesso è la presenza di queste istituzioni a rendere il popolo di un paese informato, sembra fondamentale concentrare lo sguardo su questa fetta di utenti che spesso non viene presa in grande considerazione. Come sottolineato dallo studioso: “What I was been told was so different from what I learned from courses... Without the American library you couldn't have an informed country”.
Wiegand divide l'approccio alla lettura in due forme: il learned reading, per così dire “indotto”, con il quale si ricerca e legge un testo perché è stato assegnato o perché serve per un compito, e la forma di lettura più frequente e notevole, ovvero quella del common place reading, un approccio ai testi in cui l'impegno intellettivo è forse ancor più sincero, data la spontaneità della lettura, non sollecitata da altro all'infuori della propria curiosità e sete di conoscenza.
Anche se tra le fonti principali di lettura troviamo il romanzo e storie che naturalmente sono alla portata del lettore – come nel caso dei gialli di Nancy Drew il cui successo, a partire dagli anni Trenta, è stato sensazionale – non bisogna dimenticare che si tratta pur sempre di una attività intellettiva che merita di essere valorizzata, in ogni caso.
Secondo lo studioso, infatti, a partire dai primi manufatti dell'antichità fino ai moderni ebook, si tratta pur sempre della stessa storia, sintetizzata in alcuni semplici passaggi: Wiegand ha infatti raccontato come, in questo viaggio in Italia, abbia passato quattro ore nel Museo Archeologico “Paolo Orsi” di Siracusa, osservando manufatti che trasudavano storie, non stampate né scritte, ma pur sempre storie. Lo stesso è accaduto nel Museo del Papiro, ogni cosa continuava a raccontare storie, questa volta su una delle forme di supporto più simili alla familiare carta. Anche i manoscritti, come i manufatti, raccontavano storie. E i libri stampati, così come i libri digitali, non sono che l'eredità di tutto ciò. Un insieme tutto collegato in una lunga, lunghissima storia, che non sembra avere fine. Anche se negli anni Ottanta, come ricorda Wiegand, l'avvento del computer fece pensare a molti che il libro stampato non avrebbe superato il XX secolo, nel 2010 in America c'erano ancora più biblioteche che McDonald, e ciò appare confortante. Un terzo della popolazione americana, infatti, frequenta le biblioteche pubbliche.
Inoltre, secondo Wiegand, se si osserva il loro contenuto – persino delle biblioteche che nessuno visiterebbe mai! – si può vedere chiaramente come ciò che racchiudono rappresenti una chiara mediazione, anche se invisibile, tra un piano letterario e colto e un piano molto comune e più accessibile, che sono però strettamente collegati. In questo senso, secondo lo studioso, le biblioteche sono i “salotti” delle nostre comunità, un luogo dove la gente si può raccogliere insieme. Una prospettiva molto interessante proprio per l'attenzione che rivolge a quella fetta di lettori spesso ignorati dall'accademia ma non altrettanto dal mercato.
Nell'intervento successivo, Pierre Walker, attualmente all'Orientale nell'ambito del programma Fulbright, si è soffermato sul rapporto tra scrittura, editing e pubblicazione con un intervento dal titolo “Editing Henry James editing”. Lo studioso – uno dei massimi esperti di James e curatore di alcune delle sue raccolte di opere – è partito dai manoscritti dello scrittore americano e dalle continue correzioni che su di essi è possibile rintracciare. Correzioni che nella scrittura elettronica verrebbero perdute ma che sul cartaceo, invece, non solo restano visibili ma consentono di osservare quello che è il processo di creazione vero e proprio, la stratificazione di un testo.
Tra i vari esempi mostrati da Walker – corretti, pieni di cancellature, interventi di riscrittura e commenti ai vari interventi – appare interessante quello relativo ad un errore e alla conseguente osservazione di James sul proprio uso della lingua. In una lettera a Virginia Compton, l'autore scrive “If you should find yourselfs (you can see I cannot even write grammar!)” e la s di yourself presenta una cancellatura che consente ancora di cogliere il senso del passaggio. Walker ha mostrato come nelle versioni pubblicate sia possibile osservare l'elegante prosa di James – priva di queste piccole e grandi sbavature – mentre nelle versioni originali e non editate viene fuori, nel dettaglio, tutto il lavoro che una simile prosa richiede.
Come sottolineato dallo studioso, se un po' di anni fa queste correzioni e questi interventi autoriali venivano necessariamente sacrificati nella fase di editing che precede la pubblicazione cartacea, gli strumenti elettronici oggi disponibili consentono di mostrare le diverse modificazioni cui il testo è andato incontro offrendone una visione molto più dinamica del processo creativo.
Il terzo intervento è stato quello di Sonia Di Loreto, dell'Università di Torino, che ha parlato delle opere di Margeret Fuller e della grande attenzione della scrittrice per la circolazione del sapere e per i destinatari dei propri scritti. Un'attenzione testimoniata anche dall'uso di lingue diverse e dai frequenti contatti attraverso l'Atlantico con i paesi europei, in particolare con l'Italia – la scrittrice scompare, tra l'altro, nell'affondamento di una nave nel 1850 di ritorno dall'Europa.
Le sue memorie vengono raccolte e pubblicate nel 1852 – The Memoirs of Margaret Fuller Ossoli – da Ralph Waldo Emerson, James Freeman Clarke e William Henry Channing, scrittori che fanno parte di quella rete di relazioni anche personali oltre che professionali che la Fuller riesce a tessere nella propria vita. La costruzione delle memorie – in cui sono raccolte lettere, citazioni e altri materiali – è concepita con un contributo alla letteratura americana in cui, tuttavia, la profondità della scrittura di Margaret Fuller appare appiattita. Una complessità di cui si trova testimonianza, tra l'altro, in uno scambio epistolare con l'italiana Costanza Donati che le chiede di scrivere lettere più brevi e semplici perché ha impiegato una settimana per leggere l'ultima: “your last letter took me one week for me to be read, as a palinsest”.
Il Memoires, da questo punto di vista, più che rendere omaggio all'autorialità della scrittrice appare come il frutto delle personalità che lo animano, ovvero la Fuller e i tre editori, senza contare i corrispondenti delle lettere, spesso scrittori a loro volta. Proprio l'apertura dell'autrice e la sua inclinazione verso forme di conoscenza sempre partecipate connotano i suoi testi come un qualcosa che non rimanda semplicemente ad un contenuto ma ad un movimento, ad una circolazione dei saperi e di idee che pare essere la cifra caratteristica della sua produzione.
L'ultimo intervento, di Anna Scannavini dell'Università dell'Aquila, ha avuto per tema il rapporto di James Fenimore Cooper con i testi. Il discorso è partito da un aneddoto relativo alla spinta di Cooper verso la scrittura: si racconta che mentre questi leggeva una storia alla moglie, al termine della lettura affermò “Potrei scriverti una storia migliore!”. Questo è quanto racconta la stessa figlia di Cooper che, al momento degli eventi, nel maggio del 1820, era ancora una bambina. Scavagnini mette in dubbio l'aneddoto – un ritratto sicuramente poetico ma in cui forse emerge una sovrapposizione tra autore e lettore – sostenendo invece una visione imprenditoriale dello scrittore, manager di se stesso, capace di reinvestire i propri guadagni in una nuova impresa. Cooper, infatti, oltre a scrivere e a pubblicare i manoscritti viaggiava in Europa per portare personalmente i propri testi ed evitare la pirateria che già imperversava, assicurandosi inoltre che editori, traduttori e quanti fossero coinvolti nella circolazione delle opere non svilissero il proprio lavoro. Cooper appare, in questo senso, molto attento all'intero percorso che separa la creazione dell'opera dalla sua fruizione da parte del pubblico, un percorso che come si è visto nei diversi interventi della Giornata è tutt'altro che diretto, anche se che talvolta viene immaginato come tale.
Nel vivace dibattito che ha chiuso i lavori sono state quindi riprese le fila del discorso – anche attraverso il nome di Ferdinande de Saussure e la storia editoriale del Cours – concentrando l'attenzione sulle fondamentali questioni collegate al testo e al controllo esercitato dal mondo editoriale non soltanto sul pubblico e sulla lettura, ma anche sull'autorialità e sulla scrittura delle opere.
Azzurra Mancini - Direttore: Alberto Manco