Omar Suleiman: la Palestina nel cuore
Omar Suleiman: la Palestina nel cuore
“Un uomo non può vivere senza la sua memoria”
Signor Suleiman, nella presentazione di “Mi chiamo Omar”, in scena al Teatro Galleria Toledo fino al 13 febbraio, si legge che “un uomo guarda dietro di sé e dà voce a un racconto”: qual è in questo caso il suo racconto?
Il racconto è un percorso di vita che sicuramente non potrà mai essere separato dalle proprie radici. Nel mio caso si intreccia quella che è la mia vita personale con le mie radici, radici molto impegnative: la questione palestinese non può essere tralasciata se si ha un minimo di coscienza poiché è una questione che incide quotidianamente nella propria esistenza.
Scrivere un racconto nasce da una sua necessità personale?
Io sono fatto così di carattere, sono una persona molto introversa e per questo ogni tanto ho bisogno di comunicare qualcosa ai miei amici, alle persone a cui voglio bene o comunque a tutti quelli che rispetto o considero attraverso una lettera, uno spettacolo, un racconto che mi riguarda. La scrittura è il mezzo che preferisco per esprimermi.
Lo spettacolo l'ha aiutata a scavare nella sua memoria e a recuperare i ricordi legati alla sua città natale?
Certamente! In realtà si tratta di un piccolo villaggio nei pressi di Nablus che conta 200 persone, uno dei più piccoli della Palestina. Sicuramente lavorando allo spettacolo da un anno a questa parte, al racconto e alla riscrittura da parte di Luisa Guarro emergono i ricordi e a volte riesco a ricordare anche i più piccoli particolari di alcune esperienze.
Cosa ricorda in particolare del suo villaggio?
Del mio villaggio ricordo i giochi di infanzia, le atmosfere della piccola casa che avevamo, i miei fratelli.
Che valore ha, quindi, per lei la memoria?
Un valore enorme: un uomo non può vivere senza la sua memoria.
Chi era e chi è adesso Omar Suleiman?
Credo che non sono cambiato poi molto. Dedico molto alla causa della mia gente, il mio tempo, il mio lavoro, e cerco di trasmettere ai miei figli e ai miei amici il valore della mia terra.
Richiamare l'attenzione sulla questione palestinese è l'unico obiettivo?
Lo scopo non è solo richiamare l'attenzione ma pensare a come vorremmo che fosse questa Palestina, come costruirla in futuro quando sarà libera dall'occupazione israeliana.
La Palestina non deve essere un paese qualsiasi visto l'alto sacrificio e contributo di vite umane; deve essere invece un paese speciale, aperto a tutti, libero, democratico, laico: un'idea lontanissima da ciò che è adesso sotto occupazione, con autorità palestinesi corrotte, con gente disperata.
Cosa significa avere un impegno come il suo per ciò che concerne questa causa, per ciò che riguarda il suo popolo: sente un forte senso di responsabilità in questo senso?
Quando uno “si butta nella mischia” deve assumersi le responsabilità perché è come se la gente si aspettasse qualcosa: se ti impegni non puoi distrarti ma il senso di responsabilità non è un peso per me. Anzi, mi dà energia.
Che cos'è “Osservatorio Palestina”?
“Osservatorio Palestina” è un gruppo di ragazzi che si è aggregato intorno alle attività che faccio, molti di loro sono studenti e amici dell'Orientale che si occupano di raccogliere informazioni e diffonderle in rete o attraverso conferenze: al momento la nostra sede è un piccolo spazio all'interno del ristorante arabo di Via Santa Chiara, in cui portiamo avanti un corso di arabo, un cineforum, presentiamo libri, traduciamo opere, facciamo incontri con gli autori; lavoriamo molto sulla cultura palestinese insomma.
Quanto influisce nella sua vita quotidiana aver vissuto un conflitto come quello che riguarda il popolo palestinese?
Ha influito e influisce ancora molto: quando sono nato una parte della Palestina era già occupata dagli israeliani; la prima guerra che ho vissuto, nella quale Israele completò l'occupazione della Palestina, è quella del '67, avevo 10 anni allora. Il mio ricordo è quello di un ragazzino. Ci avevano mandato fuori dalle case, vivevamo nelle campagne, sotto gli alberi e per noi bambini era tutto come un gioco: dormire fuori la notte, cucinare all'aperto. Da lì poi, piano piano, ho cominciato a prendere coscienza di ciò che stava succedendo
Come ha vissuto questo passaggio dal “gioco” di bambino a una questione da adulti?
L'ho vissuto in una maniera profonda: una volta che ho scelto di andare fuori a studiare visto che lì, in un paese sotto occupazione, non ce n'era la possibilità, mi impegnai subito nell'informazione sulla Palestina, nell'attività politica; questo ha fatto sì che io non potessi più tornare nel mio paese: per 27 anni ogni volta che provavo venivo respinto dai soldati israeliani e credo che la tortura più grande che si possa fare a un essere umano non sia quella fisica ma appunto quella di sradicarlo dai suoi luoghi di infanzia e di impedirgli di ritornarci. Ci sono degli immigrati che decidono autonomamente di vivere fuori dal proprio paese tanto tempo e si tratta di una scelta legittima; se invece fai una scelta di questo tipo in virtù di un obiettivo da raggiungere, che tra l'altro è legato a doppio filo a quello che riguarda la tua terra, e poi ti si impedisce di rimpatriare è un altro discorso. C'è da dire che questo ha inciso moltissimo nella mia determinazione e mi ha incentivato a fare sempre di più in questo senso
Che tipo di atteggiamento riscontra da parte degli italiani rispetto alla questione palestinese?
Fino a qualche anno fa il sostegno più grande, tra i paesi dell'Occidente, che riceveva la Palestina veniva dall'Italia: credo poi che una crisi della sinistra italiana abbia influito molto nel far cambiare le cose. Adesso c'è un “abbassamento della guardia”, non c'è più tanta attenzione e ha contato anche e soprattutto la divisione nello stesso campo palestinese a far distrarre la gente. Se collettivamente, come opinione pubblica, c'è un'attenzione ormai profondamente ridotta, nel piccolo, intendo dire tra i singoli individui, c'è una grande disapprovazione rispetto a quello che fa Israele: la gente è profondamente delusa.
Trova adeguata, ad esempio, il tipo di informazione a riguardo?
Assolutamente no. Il problema è che la maggior parte degli organi di stampa, la quasi totalità direi, è controllata da holding israeliane e quindi un'informazione, non dico a favore dei palestinesi ma almeno neutra, a mio avviso non esiste.
Le parole sono un'arma efficace secondo lei?
Certamente. Se le parole sono utilizzate nella maniera giusta rimangono nella mente delle persone
Quali sono gli autori che secondo lei hanno meglio trattato la questione?
Ghassan Kanafani in primis: fu ucciso nel '72, a soli 36 anni, ed è uno dei primi scrittori palestinesi che ha parlato della Palestina, tra l'altro in un modo splendido se si pensa ad esempio a “Ritorno a Haifa”, oppure in “Uomini sotto il sole”. Poi Mahmoud Darwish, il poeta scomparso tre anni fa che è uno dei massimi esponenti della letteratura internazionale e che, giusto perché era palestinese, non ha vinto il Nobel per la letteratura. Adesso ci sono tantissime esperienze di scrittori palestinesi, giovani o meno giovani che producono molto: un esempio è il mio amico, Ibrahim Nasrallah, nato nei campi profughi, adesso vive in Giordania, molto affermato oggi nel campo della letteratura e della poesia
Che finale immagina per questa lunga storia che riguarda la Palestina?
Sono pessimista riguardo alla situazione che c'è lì: c'è molta mancanza di attenzione o anche non volontà da parte della comunità internazionale che appoggia invece Israele e nel frattempo Israele ne approfitta per creare dati di fatto. Oggi, in Palestina, non ci sono più le condizioni per creare uno Stato palestinese perché i territori che erano destinati alla creazioni di un mini-Stato palestinese, cioè Cisgiordania e la Striscia di Gaza, ormai non esistono più: sono tutte terre confiscate dove Israele costruisce insediamenti e quello che è rimasto, che in Sudafrica chiamavano i bantustan, le città maggiormente abitate dai palestinesi, è costituito appunto da poche città non collegate tra di loro, separate dai check-point, dalle strade fatte solo per gli israeliani. Uno Stato non può costituirsi così e ci vorranno moltissimi anni per cambiare la situazione, finché non crescerà una generazione in Israele che comincerà a guardare i palestinesi come i loro vicini di casa, come gente che è stata usurpata dei propri diritti. Come è successo in America per quanto riguarda la questione del Vietnam. I palestinesi oggi sono molto deboli, molto divisi e non possono essere quindi influenti perché non hanno delle carte da giocare a un tavolo delle trattative con Israele. Gli israeliani, di contro, non hanno la minima intenzione di concedere qualcosa ai palestinesi, perché sono i più forti e perseguono l'obiettivo della “Grande Israele” che riunirebbe non solo la Palestina ma anche una parte della Giordania, dell'Egitto, della Siria, del Libano.
Quale potrebbe essere, secondo lei, una via d'uscita?
L'unica via d'uscita sarebbe quella di creare un unico Stato lì per tutti quanti: credo che la carta che oggi potrebbero giocare i palestinesi sarebbe quella di dire: “Va bene! Noi siamo qui! Sono 65 anni che non riuscite a cacciarci, né ad ammazzarci tutti, più o meno tra qualche anno saremo numericamente uguali, israeliani e palestinesi. Non vogliamo uno Stato, dateci la cittadinanza israeliana con gli stessi diritti e doveri dei cittadini israeliani e accettiamo di vivere in questo Stato, che si chiami Israele, Palestina, non importa”. Questa potrebbe essere una soluzione dato che, come dicevo, le condizioni per far creare due Stati separati non esistono più.
Quello che sta immaginando adesso sarebbe vista come una “sconfitta” o meno?
Assolutamente no, perché siamo arrivati a un punto critico: non riescono a eliminarci in nessuna maniera, esistiamo e rimaniamo lì. All'inizio, nel '48, si pensava che i palestinesi avrebbero fatto la stessa fine degli indiani d'America: questo non è successo grazie a quella che è la grandezza del popolo palestinese, e probabilmente all'unica arma di questo popolo, ossia la volontà di resistere. Cosa possono fare più gli israeliani ai palestinesi? Tolgono loro il cibo, ammazzano i loro figli, distruggono le loro case...e i palestinesi di tutta risposta montano una tenda sulle macerie o costruiscono una baracca nei dintorni e restano lì. Se qualcuno tornerà a distruggerla continueranno a fare lo stesso. A Gaza, ad esempio, sono sotto assedio da due anni e nell'ultima guerra, quella appunto di due anni fa, Israele ha distrutto tutte le infrastrutture, gli ospedali, le scuole, le moschee, le abitazioni: in quei luoghi, in cui proprio a causa dell'assedio non riescono ad arrivare cemento, sabbia e tutti i materiali necessari per una ricostruzione, non ci sono più macerie perché la gente le trita per riutilizzarle in questo senso! Una forza come questa è unica...
Lei come vive da lontano questa situazione?
A volte con ansia, a volte con tranquillità perché penso che in una “battaglia” ognuno si sceglie la propria postazione: io da qui credo di riuscire a dare il mio contributo.
Quali sono state le iniziative proposte da “Osservatorio Palestina” e quali saranno le iniziative future, se può anticiparcele?
Sono iniziative, come ho detto prima, afferenti al campo culturale: pubblicazione di libri, cineforum, corsi di lingua araba che teniamo ormai da tre anni. Prossimamente inviteremo Jumana Mustafa, una poetessa che stiamo traducendo.
Francesca De Rosa