Valeria Capasso: "All'Orientale tornerei, in Italia forse no"
Valeria Capasso: "All'Orientale tornerei, in Italia forse no"
All'Orientale credevo di imparare qualche lingua, ma ho trovato di più: professori che mi hanno aperto la mente, persone e mondi diversi, modi di pensare differenti. Cambiare prospettiva, non vedere le cose da un unico lato. Cose che restano ben oltre la fine degli studi.
Come mai ti sei iscritta all'Orientale? Come ne conoscevi l'esistenza?
“Mi sono iscritta all’Orientale principalmente perché volevo studiare il cinese. Durante gli anni del liceo avevo un amico di penna a Hong Kong il quale si offrì di insegnarmi qualche frase in cinese in cambio di qualche lezione d’italiano. Fu così che cominciai ad interessarmi alle culture orientali. Sapevo che all’Orientale c’era un intero Dipartimento di lingue asiatiche: quindi la mia scelta fu ben mirata.
Conoscevo l’Orientale perché una mia cugina vi si era laureata in inglese e tedesco. Ma fu tramite la sorella della mia migliore amica, anche lei iscritta all’Orientale, che riuscii ad avere una copia della Guida dello Studente, che conteneva la lista di tutti gli esami e di tutte le lingue offerte dall’Università.
Ricordo vivamente l’estate prima dell’iscrizione. La trascorsi a leggere e rileggere la lista di tutte le lingue e di tutti i corsi offerti dall’Ateneo, veramente tantissimi, e a domandarmi se stessi facendo la scelta giusta. Mi iscrissi infine al corso di laurea in Studi Comparatistici, un corso nuovo, appena aperto, unico in Italia nel suo genere. Il corso prevedeva lo studio di due lingue quadriennali, una orientale e l’altra occidentale, e senz’altro offriva la speranza di poter trovare più facilmente lavoro una volta finiti gli studi universitari.“
Oltre alla possibilità di trovare più facilmente lavoro, all’Orientale cercavi anche qualcosa d’altro?
“Immagino che all’Orientale cercassi la possibilità di conoscere altre culture, altre lingue, altri Paesi. Magari anche la possibilità di viaggiare, di prendere contatto con mondi diversi, e – perché no? – di avere una qualifica linguistica che fosse competitiva nel mondo del lavoro.
Ciò che ho trovato invece è stato anche di più: un’esperienza di studio stimolante, professori che mi hanno letteralmente aperto la mente e ho visto e conosciuto non solo mondi diversi, ma anche persone, modi di pensare differenti. All’Orientale la cosa principale che ho imparato è stata la capacità di cambiare prospettiva, di non vedere le cose da un unico lato. Studiare altre culture e mettere in gioco anche la propria: sicuramente è questa la cosa che porto ancora con me dopo aver concluso i miei studi.”
Che cosa ricordi della tua esperienza universitaria nel nostro Ateneo? Che cosa valuti, in modo particolare, come positivo?
“Della mia esperienza all’Orientale ricordo più di tutto gli edifici in cui si svolgevano le lezioni. La prima aula in cui entrai era quella dell’Antica Scuderia, un’aula quasi sotterranea che dava alle lezioni di cinese un che di ‘mistico’.
Poi l’aula delle Mura Greche, con i resti della città antica, e la sala studenti, dove c’era una bella mappa della Cina. Ricordo tutto il magnifico Palazzo Corigliano, con la biblioteca dai soffitti affrescati: era un bell’edificio in cui studiare.
Sicuramente ricordo le lezioni, sempre interessanti, i professori che cercavano di trasmetterti qualcosa in più degli argomenti da studiare per l’esame. Ricordo i corsi monografici, enormi e bellissimi.
Ma ricordo anche insegnanti che proponevano cose nuove. Per esempio, una delle ricercatrici di cinese aveva organizzato la visione di una serie di film in lingua originale: eravamo giusto un gruppetto di studenti e lei portava i film da casa. Ecco questa era una cosa che mi piaceva dell’Orientale: la passione di alcuni insegnanti nel trasmetterti i propri interessi.
C’erano professori che davano spazio agli studenti, facendoli diventare protagonisti della lezione. Non eravamo ricettori passivi in quelle classi. C’erano studenti che preparavano del materiale da presentare alla classe durante il corso, persone che potevano condividere un proprio interesse. Questo sicuramente è stato un aspetto importante della mia esperienza di studio all’Orientale.
Ricordo i ‘gruppi di studio’ improvvisati nei corridoi per ripetere una lezione o per tentare un’improbabile traduzione dal cinese classico.
E come potrei dimenticare l’ansia degli esami, sopratutto i primi, e quel libretto che si riempiva un poco alla volta. C’erano studenti che avevano immaginette dei santi dentro il libretto, altri che se lo portavano dappertutto, il mio era sempre a casa, deposto - tipo reliquia - in una scatola e, per scaramanzia, lo prendevo solo il giorno dell’esame.”
Su quale tema hai fatto la tesi? L'argomento ti fu suggerito o fu una tua scelta personale?
“Il tema della mia tesi era «L’immagine dell’Australia. Tra epopea della fondazione e mito delle origini (1925 – 1987)». L’argomento venne fuori durante una discussione con il Professore che mi faceva da relatore. In quel periodo avevo viaggiato un paio di volte in Australia. In realtà l’Australia non era affatto nei miei programmi. Io ero una di quelle che aveva in mente un ‘piano infallibile’: laurearmi in cinese, vivere per un anno in Cina, diventare più fluente nella lingua e poi muovermi nel campo del lavoro. Ecco, i miei piani non sono andati proprio così... Al secondo anno partii con un gruppo di studenti per fare un corso di cinese di sei mesi presso l’Università di Hangzhou, lì incontrai un ragazzo australiano, ed era appunto per lui che andavo e venivo dall’Australia. Poi ci siamo sposati e adesso vivo in Australia da quasi 10 anni.
Be’ tornando alla domanda, dal momento che avevo viaggiato in Australia il Professore suggerì che la tesi avesse per argomento gli aborigeni australiani. All’inizio pensai che fosse una follia, dal momento che non sapevo niente dell’Australia, non conoscevo la cultura aborigena e non avevo idea di dove mettere le mani né di come collegare il tutto al mio famoso ‘piano infallibile’.
In realtà fu un’esperienza interessantissima, intanto perché ebbi la possibilità di imparare la storia dell’Australia. Scrivere dell’Australia mi è servito a livello personale per conoscere un paese che, adesso lo vedo bene, percepisce me stessa come ‘altro’.
La tesi partiva da Geza Roheim, uno psicoanalista della prima generazione freudiana, autore di una ricerca dal titolo “Gli eterni del sogno” (un tentativo d’interpretazione psicoanalitica dei miti e rituali australiani), passava per Bruce Chatwin (il celebre “Le vie dei canti”) e arrivava a Robert Hughes, l’autore del bellissimo libro “La riva fatale”. Quello che tutti e tre avevano in comune era la loro interpretazione della storia e della cultura australiana, che non venivano mai riportate in maniera oggettiva nei loro testi, ma sempre romanticizzate o addirittura distorte finché non avessero combaciato con le verità che ognuno di loro voleva presentare. Fu molto stimolante fare questa tesi, perché mi dette l’occasione di notare che non è poi così difficile manipolare la realtà dei fatti, non solo in Australia, ma che è ancora più interessante cogliere i meccanismi che ci sono dietro.”
Diresti che esiste un rapporto tra il tuo essere stata all’Orientale e l’interesse per l’alternativa nomade di Bruce Chatwin?
“L’alternativa nomade di Chatwin è molto suggestiva soprattutto per quel suo intendere il viaggio come ricerca interiore. Però di Chatwin, nella tesi, ho criticato quel suo proiettare le proprie idee sui luoghi che egli visita annullandone la loro unicità e trasformandoli in qualcosa che essi non sono, ma che riflettono le sue verità.
In questo senso mi sforzo di non assomigliare a Chatwin anche se mi accorgo di quanto ciò sia difficile. Mi accorgo, anzi, di quanto concetti come l’eurocentrismo riaffiorino sempre: il costante confronto di sé stesso con l’altro, in maniera più o meno positiva, è praticamente inevitabile.
Da questo punto di vista, l’Australia è un piccolo miracolo: ognuno resta nel suo gruppo etnico, ognuno con la sua religione, il suo cibo, la sua lingua e pur restandone separato fa comunque parte di un insieme più omogeneo che è la comunità australiana. Ci sono eccezioni, naturalmente: non tutti accettano gli stranieri, ma in generale a tutti viene data la possibilità di entrare nella comunità intesa in maniera più ampia.
Certo la cultura australiana è piena di stereotipi e anche di contraddizioni. Tutto lo sforzo da parte della comunità di accettare gli stranieri e la loro cultura è accompagnato da altrettanta indifferenza nei confronti degli aborigeni australiani. Gli aborigeni, di cui solo un piccolo numero è integrato nella società australiana, vivono per lo più ai margini delle città, sopravvivono con il sussidio che il governo gli passa, non hanno lavoro e, nelle comunità più piccole e isolate, nemmeno la prospettiva di trovarne uno. Sono vittime dell’alcol e sniffano benzina o vernici. La comunità in generale fa finta che non esistano. Quando il governo Rudd si è scusato ufficialmente con gli aborigeni, la maggior parte degli australiani è rimasta più o meno indifferente alla questione. Fino a quel momento i governi precedenti si erano rifiutati di scusarsi con la comunità aborigena temendo che questa avrebbe richiesto un risarcimento dei danni subiti, ma tutto questo non è successo. D’altra parte, da quel poco che si vede in televisione, mi sembra di capire che lo stato di degrado di alcune comunità sia tale che una presa di coscienza di gruppo sia quantomeno molto difficile, se non impossibile.
Durante i miei studi all’Orientale, e soprattutto anche durante la preparazione della tesi, ho avuto modo di studiare da vicino la società in cui adesso vivo, questo è stato senz’altro un grande vantaggio per me e una grande fortuna.”
Hai conservato rapporti con docenti e laureati dell'Ateneo?
“Sì, sono rimasta in contatto con quasi tutti gli studenti del corso di cinese, soprattutto con quelli che erano insieme a me durante viaggio in Cina. Sono anche in contatto con il Professor De Sio Lazzari che è stato il relatore della mia tesi di laurea.”
Ritieni che l'Orientale abbia contribuito a darti un senso di apertura al mondo, alle culture, alla ricchezza della nostra umanità?
“Sicuramente l’Orientale mi ha dato da subito un senso di multiculturalismo. I corsi in particolare hanno contribuito a darmi un senso di apertura mentale perché erano di ampio respiro. L’Orientale ha contribuito ad alimentare il mio desiderio di viaggiare e di vedere altri posti fino ad arrivare in Australia da dove ho guardato indietro alla mia stessa cultura. Diciamo che ho dovuto prima arrivare nel punto più lontano per capire il percorso che avevo fatto. È stata un’esperienza molto interessante.”
Come mai vivi in Australia? In quale città?
“Abito in Australia a Brisbane, la capitale dello Stato del Queensland. Abito qui perché mio marito è australiano. Dopo aver vissuto a Napoli per un anno mio marito è letteralmente scappato alla ricerca di qualcosa di più ‘normale’. Penso che all’inizio Napoli lo avesse quasi colpito in maniera positiva, una città così diversa dalla sua, e penso, in generale diversa da tante altre città europee, ma alla fine credo che sia stata proprio Napoli che lo ha fatto ripartire e io, che non avevo mai pensato all’Australia come un posto in cui vivere, ho pensato di provare. Così dopo dieci anni sono ancora qui, ma sempre in prova, naturalmente!”
Quali le differenze principali tra la vita universitaria italiana e quella
dell’Australia?
“La vita universitaria in Australia è molto più rilassata che in Italia. Gli studenti frequentano campus molto grandi, e volendo possono anche abitare nel dormitorio all’interno dell’università. I ragazzi vengono incoraggiati a partecipare attivamente alla vita universitaria, nel senso che l’università stessa diventa una minicittà in cui gli studenti trovano a propria disposizione parrucchieri, mini supermercati, asili nido a cui affidare i propri bambini durante le lezioni, campi sportivi ecc. Qui ci sono molti adulti che frequentano l’università. Alcuni lavorano e la frequentano part time, altri studiano per prendere una seconda laurea. Sicuramente l’università australiana è più rilassata anche nei corsi, dove gli studenti vengono quasi coccolati e ‘invogliati’ a restare. Quando ho insegnato all’università qui a Brisbane, dove ho lavorato come lettrice madrelingua, mi sono trovata di fronte a una situazione in cui dovevo essere io a ricordare agli studenti di fare i compiti, di prepararsi per gli esami, perfino di venire agli esami. D’altro canto la cosa positiva è che a tutti viene data la possibilità di frequentare i corsi. L’università è molto cara qui in Australia, ma il governo consente agli studenti di fare un prestito con un interesse bassissimo, del 2%, e quando i neolaureati cominciano a lavorare, i soldi vengono detratti automaticamente dal loro stipendio. Se non lavorano non vengono tassati. Ma qui non lavorare richiede una certa dose di buona volontà!”
Qual è il tuo lavoro?
“In questo momento insegno italiano agli adulti, un lavoro che mi piace moltissimo, più di quanto immaginassi. Insegnare agli adulti è divertente perché proprio gli adulti, mettendosi ad imparare una nuova lingua, ritornano bambini, ritrovano la frustrazione di non riuscire ad esprimersi, hanno paura delle interrogazioni, tirano fuori scuse improbabili per giustificare il fatto di non aver fatto i compiti. Ci sono quelli che si arrabbiano, quelli che si fanno mille domande grammaticali che non hanno risposta, quelli che sono italiani di seconda o terza generazione e trovano molto romantico il proprio passato italiano e vogliono ritornare a vedere il paese dal quale partirono i loro nonni. Il tutto sempre in un’atmosfera leggera, perché gli australiani non si prendono mai troppo sul serio.
Qualche volta collaboro con il Department of Education per l’insegnamento dell’italiano nelle scuole del Queensland. Anche questo è un lavoro molto interessante, e spesso mi fa rendere conto di quanto la teoria dell’insegnamento sia molto diversa dalla vita pratica della classe.
Quale sarà il mio lavoro per il futuro ancora non lo so. L’insegnamento è molto bello ma è precario, perfino qui. La differenza è che in Australia, in questo momento, ho molte più prospettive di lavoro che in Italia, e perciò cambiare lavoro non è una cosa che mi preoccupa, anzi, mi invita a rimettermi in gioco.”
Se fosse possibile, torneresti in Italia?
“La domanda è più difficile di quello che sembri. In un primo momento odiavo letteralmente l’Australia: non faceva parte dei miei progetti e non volevo averci niente a che fare. Per un periodo sono rimasta all’interno della comunità italiana di Brisbane: questo da un lato mi faceva sentire protetta e dall’altro mi escludeva in un certo qual modo dal resto della comunità australiana. Alla fine la mia salvezza è stata cominciare a lavorare con gli australiani perché nel mondo del lavoro qui non conta chi sei o chi conosci, ma quello che sai fare.
Il campo del lavoro è molto mobile, le persone cambiano lavoro continuamente, seguono un corso al college o all’università e si lanciano letteralmente in un'altra carriera, e questa è una cosa positiva, le persone sono stimolate dal proprio lavoro, sono incentivate perché hanno la possibilità di fare un lavoro che a loro piace, oppure scelgono di fare un lavoro meno interessante solo temporaneamente, nell’attesa che qualcosa di meglio venga fuori.
In questo momento, con la situazione economica e politica in Italia non credo che tornerei. Mi piacerebbe, certo, perché mi mancano la mia città, la mia famiglia e i miei amici, ma la situazione lavorativa sarebbe intollerabile. Qui a Brisbane la vita è lenta e talvolta noiosa, ma in Italia tutto funziona solo per la buona volontà di quelle persone oneste che spesso vedono le proprie aspirazioni frustrate. Ho amici avvocati e ingegneri che non guadagnano nemmeno uno stipendio degno di questo nome. No, in questo momento non vorrei tornare.”
Francesco Messapi