Zio Vanja: il Centro di Igiene Teatrale a nuova prova

 

Zio Vanja: il Centro di Igiene Teatrale a nuova prova

Alcuni attori del Centro di Igiene Teatrale

"Noi vivremo, Zio Vanja. Vivremo una lunga, una lunga sequela di giorni, di interminabili sere". 

Il Centro di Igiene Teatrale, compagnia composta in buona parte anche da studenti ed ex dell'Orientale, mostra stavolta un lavoro di taglio decisamente diverso da quelli visti sinora.
Una scenografia che richiama una spoglia tenuta di campagna e le prime battute già intrise di una nostalgia che accompagnerà l'intera opera ci proiettano subito nella lontana periferia russa dell'Ottocento: niente risate stavolta a Spazio Libero, lo si capisce fin da subito; al massimo ai presenti è concesso qualche sorriso amaro. Attuale più che mai per la rassegnazione generale e per la negazione di un qualsiasi dinamismo, che contraddistinguono la nostra epoca, la storia si sviluppa fondamentalmente intorno ai personaggi di Sonja (Lauraluna Fanina) e suo zio Vanja (Antonio Lepre), che dal rapporto con la grande famiglia allargata ne escono veramente sconfitti e traditi e che condividono, tra l'altro, le dure pene dell'amore non ricambiato. Il senso di inadeguatezza, di noia ma soprattutto di insoddisfazione è comunque dilagante: i personaggi perdono consistenza e più che di carne ed ossa sembrano trasformarsi in grigie ombre dai contorni sbiaditi. Ciò che li caratterizza è sicuramente l'immobilità e la preoccupazione, che a un tratto diventa certezza, di aver ormai sprecato la propria vita come nel caso del professore Aleksandr (Michele Maria Lamberti), vecchio, malato, frustrato di fronte alla sua stessa mediocrità, della sua giovane moglie Elena (Francesca Florio), bella ma algida e sostanzialmente incapace di amare, o anche del dottor Astrov (Stefano Aloschi), filantropo sottrattosi a ogni tipo di emotività. Tre figure di contorno chiudono il cerchio: Ilja (Roberto Minichini), possidente impoverito, Marija (Melania Scarpato), madre di Vanja e ammiratrice imperterrita del professore, Marina (Maria Di Mare), vecchia balia di famiglia; tre sagome che pure non riescono a sostenere la vita e che sono quindi, anch'esse, costrette a rifugiarsi in qualcosa che nella fattispecie si concretizza rispettivamente nell'alcol, nei libri e nella memoria.

Il pubblico, insomma, è spinto sì alla riflessione, come al solito d'altronde, ma contemporaneamente non può che sentirsi pervaso dal desiderio di azione: lasciare la sala con la leggerezza e la spensieratezza che accompagnano tradizionalmente i lavori del Centro di Igiene Teatrale sarà dunque pressoché impossibile stavolta, e il senso di oppressione sarà talmente attanagliante da poter comprendere fino in fondo il significato della parola “speranza”. Esigenza oggi molto avvertita.

Francesca De Rosa

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