Angela Zavettieri: studiare russo e ceco all'Orientale di Napoli

 

Angela Zavettieri: studiare russo e ceco all'Orientale di Napoli

Angela Zavattieri

“All'Orientale si è, in un certo modo, come delle creature esotiche”

Angela Zavettieri, come ha saputo dell'Orientale?

“Vivo a Napoli ormai da metà della mia vita e sono nata a Putignano, in Puglia. Per i miei primi diciotto anni ho vissuto in un paesino nella punta estrema della costa ionica calabrese, a Bova Marina in provincia di Reggio Calabria, ma è in Puglia che affondano le mie radici materne, motivo per cui questa terra rimane per me un pozzo inesauribile di evocazioni. Dell’Orientale venni a sapere a 18 anni quando, all’ultimo anno di Liceo, cercavo di orientarmi sulla scelta universitaria. Fu da una piccola guida descrittiva dei Corsi di laurea esistenti allora in Italia, allegata a un giornalino di cui non ricordo il nome, che ebbi notizia dell’esistenza di questo Ateneo e delle vasta gamma di lingue che vi si potevano studiare.”

Dopo aver scelto l’Orientale, c’è stata la scelta del Corso di laurea, e si è iscritta al corso in Filologia e Storia dell’Europa Orientale, laureandosi nel 1997 con 110 e lode. Che cosa l’ha spinta verso questo Corso di laurea, poco frequentato nel nostro Ateneo, anche se fino a qualche anno fa era l’unico in tutta Italia (per quanto riguarda l’Europa Orientale)?

“Se devo essere del tutto sincera, ho scelto prima il Corso di laurea e poi l’Ateneo. In alternativa avevo in mente la sezione di africanistica del corso di Lingue e civiltà orientali. E fu l’unicità di questi Corsi di laurea a portarmi alla scelta dell’Orientale. Per altre lingue avrei anche potuto studiare in altri Atenei, più vicini al mio paese d’origine. Scelsi poi Filologia e storia dell’Europa Orientale, e nello specifico l’indirizzo di slavistica, per la forte suggestione che avvertivo per la letteratura russa, ma anche per una motivazione storica: era il 1990 e l’Europa era al centro di quello scossone ideologico che portò al crollo dei regimi comunisti nei paesi dell’Europa centro-orientale, con una conseguente apertura culturale di quei popoli e soprattutto economica di quei mercati. Fu automatico pensare alle possibilità lavorative che si sarebbero create. Possibilità che tuttavia si credette fossero più semplici da raggiungere.”

Quali le lingue che ha scelto di studiare?

“Il russo appunto, quale lingua quadriennale, e il ceco come triennale. Lingue per me entrambe evocative, benché ognuna a modo suo, di passioni forti: la prima, di sentimenti umani molto intensi; la seconda, di amore per una libertà ripetutamente negata dalla storia.”

La sua tesi ha per titolo Lo Jurodstvo e le sue trasposizioni letterarie, e il relatore è stato Boris Uspenskij, un filologo russo di statura internazionale, grande slavista, autore di libri fondamentali. Vuole spiegarci l’oggetto della sua tesi?

“Il misticismo ha sempre esercitato su di me una forte attrazione. Da questo punto di vista la tesi di laurea fu l’occasione di aprire una porta su un mondo affascinante e potenzialmente infinito, quello della spiritualità umana e delle varie forme che assume di cultura in cultura. Lo jurodstvo, nello specifico, è un fenomeno tipico della tradizione religiosa russa che affonda le sue radici in quella cristiana mediorientale. Attraverso il filtro dell’ortodossia greca, la religiosità russa ha acquisito quale irriducibile dicotomia il binomio terreno-celeste. Lo jurodstvo era ed è, per quel poco che ne è rimasto, una particolare pratica ascetica che consisteva nel farsi credere folli come atto di estrema mortificazione della dignità umana. In una traduzione approssimativa viene definito follia per Cristo. Nell’imbattermi in questo fenomeno rimasi profondamente colpita dall’idea di una follia (per così dire) intenzionale e ancor più dal fatto che si potesse pensare di attribuirle una funzione mistica. Per altro, al secondo anno, mi trovai a leggere L’Idiota per il corso monografico su Dostojevskij che è ancora oggi uno dei miei autori preferiti; e in quell’occasione mi fu del tutto naturale associare il personaggio del principe Myskin al fenomeno della follia per Cristo.”

Com’era Uspenskij nelle vesti del docente che segue un lavoro di tesi?

“Molto disponibile e preciso. Ricordo che era al suo primo anno di insegnamento all’Orientale e in Italia. Non parlava ancora italiano ma era in grado di capirlo data la sua conoscenza delle lingue classiche. Leggeva puntualmente tutto il materiale che producevo e mi suggerì diverse strade da approfondire, tanto che poi seppi rinunciare a poche di esse e ne venne fuori un lavoro che oggi considero forse un po’ eccessivo per una tesi di laurea ma che fu un bellissimo viaggio attraverso le culture. Subito dopo la laurea, il Dottorato di ricerca in Culture dell’Europa Orientale.”

Il titolo della sua tesi di Dottorato mi lascia vagamente sgomento: La variazione linguistica in ceco contemporaneo: indagine sulla dimensione diamesica (tutor il professore François Esvan). Di che cosa si tratta?

“In realtà la mia ricerca di dottorato è un’esperienza a sé stante, poiché è venuta molto tempo dopo essermi laureata ed è coincisa con il mio ritorno a Napoli dopo una parentesi di cinque anni vissuti a Praga. Nel frattempo, quindi, da russista avevo approfondito sempre più la boemistica soprattutto in termini di studi linguistici. Per farsi un’idea del tema di questa ricerca bisogna conoscere un po’ di sociolinguistica. È da lì che parto, così come dall’idea che la lingua è prima di tutto uno strumento di comunicazione che va riportato alle esigenze del parlante e non trasformato in un’astrazione teorica. Questo il presupposto, e pertanto la descrizione di una lingua non può prescindere mai da come essa viene realmente parlata. La mia tesi è stata soprattutto il tentativo di capire quanto questi presupposti valgano per il ceco contemporaneo. Un quesito del genere si pone nel caso del ceco perché la situazione di questa lingua è caratterizzata da un particolare contrasto fra ciò che viene definito corretto secondo la codificazione grammaticale e ciò che si utilizza normalmente per esprimersi. Un contrasto che ancora oggi, per motivi che descrivo dettagliatamente nella tesi, risulta irriducibile. Nello specifico di tale questione linguistica, io ho scelto di approfondire l’argomento osservando alcune situazioni linguistiche di confine, come i talk-show televisivi, situazioni border fra pubblico e privato.”

E adesso qual è il suo lavoro?

“Attualmente traduco principalmente dal ceco all’italiano, ma è un lavoro che ancora non mi sostiene. Seguo contemporaneamente una formazione diversa, che tuttavia corrisponde a un mio antico interesse, mai veramente coltivato, quello per la psicologia. Mi sto formando come counselor psicologico che, nell’economia della mia storia personale, si delinea come un altro aspetto del mio interesse per la comunicazione e l’interazione umana.”

Se dovesse iscriversi nuovamente all’Università, farebbe le stesse scelte?

“Fermo restando che per me tornare indietro con la consapevolezza acquisita attraverso un percorso per decidere di farne un altro rimane un paradosso, non è escluso. La lingua e la letteratura rimangono due delle mie passioni più forti. Forse sceglierei lingue diverse. Adesso sono incuriosita da altre culture, ma forse sceglierei tutt’altro, come psicologia appunto.”

Qual era l’ambiente, le attività, le figure più significative del Dipartimento di Studi sull’Europa Orientale, al tempo in cui lei lo frequentava?

“Ricordo con particolare affetto gli insegnanti di russo, quelli di lingua come quelli di letteratura. Angelo Bongo di cui ricordo non solo la preparazione ineccepibile ma l’estrema correttezza nei rapporti con gli studenti, la grande disponibilità e la capacità di sferzare per ottenere risultati migliori. Aveva un che di paterno da questo punto di vista. Ho avuto poi la fortuna di ricevere l’insegnamento di uno dei più grandi slavisti italiani, Riccardo Picchio, prima che andasse in pensione. Di lui mi è rimasto in eredità soprattutto lo sforzo di aprire la mente degli studenti alla curiosità e ad una capacità di connessione che definirei sistemica delle cose e della cultura. Credo di avere trovato in poche persone, anche in seguito, un tale amore di conoscenza e un tale divertimento e curiosità nella ricerca. I lettori come Natasha, di cui non ricordo il cognome, perché era Natasha e basta per tutti, perché era un po’ come una njanja (una tata) per noi matricole. E Monica Ferrante che, in tempi difficili per i lettori a contratto, non ci faceva mai mancare un minimo di contatto con la lingua. Non posso dire di essere stata altrettanto fortunata per quanto riguarda il corso di ceco, perché Jaroslav Stehlík andò via appena dopo il mio primo anno di corso, senza essere sostituito. L’atmosfera del Dipartimento era in quegli anni piena di entusiasmo. Si avvertiva, dati i cambiamenti storici e il rinnovato interesse per le culture dell’Europa Orientale, un fermento nuovo e noi matricole ci sentivamo un po’ elette rispetto agli studenti di lingue dell’Europa Occidentale. Non era da tutti studiare ceco o serbo, anche in un Ateneo come l’Orientale. Eravamo a nostro modo… creature esotiche.”

Vuol dirci ancora qualcosa? Un ricordo dell’Orientale, un episodio, una sensazione…

“Sono ormai passati quasi quindici anni dalla mia laurea e i ricordi sfumano in immagini poco nitide. Mi vengono in mente varie situazioni ormai superate, non sempre encomiabili per l’Ateneo dal punto di vista organizzativo, che però, devo dire, da allora ha subito numerosi cambiamenti nelle strutture. Ai miei tempi era quasi tutto concentrato a palazzo Giusso (per altro tornare a Napoli e trovare il Dipartimento di studi dell’Europa Orientale a via Duomo mi ha letteralmente spiazzata) e ricordo che avevamo pochissime aule a disposizione. Avere una sala lettura in Dipartimento era per noi inconcepibile, e la biblioteca stessa era composta dalle collezioni custodite nelle singole aule dei docenti. Quando ho visto la biblioteca di Studi Europei cinque anni dopo la mia laurea sono rimasta quasi incantata. Eppure confesso che ricordo con un’innegabile nostalgia la possibilità, dei miei anni, di entrare in contatto diretto con quei volumi polverosi. C’era, in quella nostra precarietà, una volontà di appassionarci alle cose che studiavamo che non sono sicura abbia modo di esistere più in un’epoca in cui bisogna preoccuparsi prima di tutto di raccogliere punti per laurearsi… Lo dico senza intenzione polemica.”

Infine: lei scrive, o scriveva, poesie. Continua in questa sua attività creativa?

“Sì, scrivevo e continuo a scrivere poesie. La frequenza è cambiata, ridotta se vogliamo, inversamente proporzionale all’impegno di esistere in una realtà che lascia poco spazio all’esplorazione del simbolico e del potenziale. La poesia rimane tuttavia per me il modo più naturale di percepire la vita, lo strumento più potente e sintetico di un mondo emotivo da cui facciamo fatica a non farci travolgere, una sorta di filo d’Arianna che attraversa i nostri piani più intimi, da cui non voglio e non saprei comunque prescindere.”

Francesco Messapi